Lunedì 31 ottobre, in occasione del primo Consiglio dei ministri del governo guidato da Giorgia Meloni, è stato approvato un decreto legge. Il testo riguarda numerose materie, compresa la questione dell’ergastolo ostativo, di cui si è dibattuto a più riprese negli ultimi mesi, e che ha trovato compimento nella legge di conversione del decreto, approvata il 30 dicembre scorso.
Cos’è l’ergastolo ostativo
L’ergastolo ostativo rappresenta una tipologia specifica di pena detentiva, che oltre ad essere perpetua, rispetto all’ergastolo “semplice” impedisce alla persona condannata di accedere a misure alternative o ad altri benefici. In altre parole, se un ergastolo può, ad esempio per buona condotta o per altri meriti del detenuto, essere trasformato in una condanna con un termine, l’ostativo prevede tali possibilità unicamente nel caso in cui la persona in questione decida di collaborare con la giustizia. Ovvero di diventare quello che viene definito un “pentito”.
Per tale ragione, l’ergastolo ostativo, che esiste nel nostro ordinamento a partire dai primi anni Novanta, rappresenta una pena “estrema”, che viene comminata soltanto in caso di delitti particolarmente gravi. È il caso, ad esempio, di chi viene condannato per associazione mafiosa. Benché decisamente più pesante rispetto all’ergastolo ordinario, sono tuttavia numerosi gli ergastolani ai quali è stata imposta l’impossibilità di accedere ai benefici ordinari: circa il 70 per cento di coloro che sono stati condannati alla reclusione a vita, secondo quanto indicato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma.
Il garante delle persone private della libertà critica la riforma: "Il testo licenziato dalla Camera sull'ergastolo ostativo è in tensione con le indicazioni date dalla Corte costituzionale e introduce disposizioni decisamente peggiorative rispetto alla disciplina" #ANSA
Quali critiche sono state mosse all’ergastolo ostativo
La norma fu introdotta poco prima del periodo delle stragi di mafia nelle quali persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La volontà dello stato era di dare un segnale chiaro di “certezza della pena” ai criminali, nella speranza che ciò potesse fungere da deterrente. E una sua eventuale abrogazione rischierebbe di consentire ad alcuni criminali, anche boss di mafia, camorra o ‘ndrangheta, di uscire dal carcere. Anche coloro che non si sono mai pentiti e che quindi, almeno in linea teorica, potrebbero riprendere a governare le loro associazioni a delinquere.
Chi ha criticato l’ergastolo ostativo ha sottolineato tuttavia come esso appaia in contrasto con il principio, previsto dal nostro ordinamento, secondo il quale la funzione del carcere non deve essere unicamente punitiva ma anche riabilitativa. Ciò significa che in carcere dovrebbe essere, almeno in linea teorica, possibile ravvedersi ed essere accompagnati in un percorso il cui obiettivo sia di tornare da persone libere nella società.
Perché la Corte costituzionale l’ha considerato incostituzionale
È proprio a questo scopo che è stata interpellata la Corte costituzionale. A farlo è stato un giudice ordinario, nel corso di un processo durante il quale la difesa di un imputato ha sollevato un dubbio di costituzionalità della norma. In pratica, il giudice in questione ha ritenuto che la legittimità costituzionale della legge in questione fosse dirimente ai fini del giudizio, e pertanto ha sospeso il processo in attesa di un pronunciamento della Consulta.
Quest’ultimo è arrivato nel mese di aprile del 2021, e ha riguardato in particolare la legge 203 del 1991 nella parte, appunto, «esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale».
In particolare, secondo la Consulta, la norma è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Il primo, infatti, indica che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”; il secondo dispone che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Inoltre, nel processo che ha dato origine al pronunciamento della Corte, è stato eccepito che la collaborazione con la giustizia non possa “essere elevata a indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale”. Inoltre, possono verificarsi casi di detenuti che sono sinceramente pentiti, ma che non vogliono diventare ufficialmente collaboratori di giustizia per, ad esempio, paura di ritorsioni su familiari.
Cosa ha chiesto la Consulta al parlamento
Per questa ragione, la Corte costituzionale aveva deciso di concedere un anno di tempo al parlamento per approvare una nuova legge, che fosse in linea con il dettato della Carta. La scorsa legislatura, tuttavia, non è riuscita ad operare in questo senso: un progetto di riformaè stato approvato nello scorso mese di febbraio alla Camera, ma non si è riusciti ad ottenere il via lobera anche dal Senato.
La questione, per questo, si è subito ripresentata sul tavolo del nuovo governo, anche perché una nuova udienza della Corte costituzionale, che avrebbe dovuto valutare proprio la riforma, è prevista per il prossimo 8 novembre. A questo punto, la Consulta vaglierà il nuovo decreto, che tuttavia – pur essendo un atto avente forza di legge – deve essere convertito in legge entro sessanta giorni dalla sua emanazione. Altrimenti decadrà.
Il parlamento, dunque, ha a disposizione due mesi di tempo. Ma fondamentale sarà il pronunciamento dei giudici costituzionali, che potrebbero indicare come incostituzionale anche il nuovo decreto legge (i cui contenuti ricalcano il testo licenziato a febbraio dalla Camera). Di questo avviso, per lo meno, è l’Unione delle Camere penali, che in un lungo documento pubblicato a poca distanza dall’approvazione del decreto stesso, ha parlato di “evidenti e gravi profili di incostituzionalità”.
Qual è l’orientamento sull’ergastolo ostativo del governo Meloni
Si è inoltre dibattuto anche sull’uso dello strumento del decreto legge da parte del governo Meloni. Quest’ultimo, infatti, può essere utilizzato soltanto in caso di “necessità e urgenza”: ciò in quanto, di fatto, prevede che il potere esecutivo si attribuisca, sulla materia specifica, il ruolo che normalmente è appannaggio del potere legislativo, ovvero del parlamento.
Meloni: "Abbiamo approvato un primo decreto molto importante per provvedimenti. Avevo detto che la lotta alla criminalità organizzata era uno degli obiettivi del governo, e sono contenta che il decreto contenga una norma che va in questo senso, sull'ergastolo ostativo" #ANSA
L’Unione delle Camere penali ha in questo senso criticato la scelta dichiarando che il ricorso a un decreto legge sia illegittimo, poiché sussisterebbe un “difetto assoluto di ogni plausibile ragione di urgenza”. In questo senso, vista la delicatezza della materia, sarebbe stato preferibile consentire al parlamento di seguire un iter ordinario.
In ogni caso, l’orientamento del governo Meloni è chiaro: l’ergastolo ostativo è necessario per garantire certezza della pena e per lottare in modo efficace contro la criminalità organizzata. Occorrerà verificare se il testo approvato dal Consiglio dei ministri, nonché la legge di conversione, soddisferanno i requisiti richiesti dalla Consulta per ottemperare al dettato costituzionale.
La versione finale: a decidere sarà il giudice
Il Parlamento ha però modificato parzialmente il contenuto del decreto del Consiglio dei ministri. L’articolo 1 della legge di conversione del cosiddetto decreto rave approvato in via definitiva il 30 dicembre scorso, di fatto risolve la questione concedendo ampi poteri di discrezionalità al giudice, chiamato a stabilire se il condannato può o meno usufruire dei benefici previsti anche nel caso in cui decida di non collaborare, sulla base di indagini specifiche. In particolare, secondo la versione definitiva della legge, il giudice
acquisisce, anche al fine di verificare la fondatezza degli elementi offerti dall’istante, dettagliate informazioni in merito al perdurare dell’operatività del sodalizio criminale di appartenenza o del contesto criminale nel quale il reato è stato consumato, al profilo criminale del detenuto o dell’internato e alla sua posizione all’interno dell’associazione, alle eventuali nuove imputazioni o misure cautelari o di prevenzione sopravvenute a suo carico e, ove significative, alle infrazioni disciplinari commesse durante la detenzione.
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Di fatto, dunque, il giudice dovrà stabilire se il condannato potrà o meno accedere agli sconti di pena prevista per i condannati per reati “normali” anche sulla base delle informazioni ottenute circa la possibilità che egli sia ancora, o meno, in contatto con il contesto criminale di provenienza. L’altra grande novità introdotta è che dalla lista dei reati per cui non scattano i benefici sono stati espunti quelli contro la pubblica amministrazione.
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