Etiopia, uccisi 600 civili in un villaggio nel Tigrè
Il campo di Um Raquba, in Sudan, nel quale vivono profughi provenienti dall'Etiopia @ Ashraf Shazly/Afp/Getty Images
Centinaia di civili sono stati uccisi in un villaggio del Tigrè, regione nella quale si affrontano l’esercito federale dell’Etiopia e gruppi separatisti.
Il campo di Um Raquba, in Sudan, nel quale vivono profughi provenienti dall'Etiopia @ Ashraf Shazly/Afp/Getty Images
“Siamo riusciti a entrare in città senza colpire civili innocenti”. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha annunciato con queste rassicuranti parole la riconquista di Mekele, principale centro del Tigrè, la più settentrionale delle nove regioni dell’Etiopia. In questo modo sarebbe concluso l’intervento dell’esercito regolare lanciato il 4 novembre contro i separatisti del Fronte popolare di liberazione del Tigrè, presenti nella zona ai confini con l’Eritrea, che avevano disconosciuto le istituzioni di Addis Abeba.
Secondo i ribelli “la guerra in Etiopia non è ancora finita”
Verificare con certezza la situazione sul posto è tuttavia pressoché impossibile. Secondo i ribelli, infatti, “la guerra non è ancora finita”. E non si sa se si stia ancora sparando nella regione (anche per via della chiusura degli accessi a internet). Una vicenda legata alla guerra del Tigrè è però emersa. In tutta la sua atrocità.
Il 9 novembre, cinque giorni dopo l’avvio dell’operazione militare da parte del governo dell’Etiopia, alcune centinaia di abitanti di un villaggio presente nella porzione occidentale della regione, nei pressi della frontiera sudanese, sono state uccise. Un’operazione di una violenza drammatica, tale da ricordare la tragedia vissuta dal Ruanda negli anni Novanta.
Una violenza tale da ricordare il dramma del Ruanda
Gli abitanti di Mai-Kadra sono stati infatti ammazzati a colpi di bastoni, di machete e di accetta. E perfino strangolati con delle corde. Della strage, però, nulla è trapelato per alcuni giorni. Finché un giornalista dell’agenzia Afp, riuscito a recarsi sul posto, ha riscontrato la presenza di “decine di cadaveri in putrefazione, senza sepoltura, ammassati in un fossato sul ciglio di una strada”.
Alla fine di novembre, la Commissione etiope per i diritti umani (un organismo pubblico semi-indipendente) ha accusato formalmente una milizia di giovani del Tigrè, i samris, che sarebbe stata spalleggiata da alcune forze di sicurezza locale. Complessivamente, i miliziani avrebbero ucciso non meno di 600 persone, “individuandole preventivamente su base etnica”. Le vittime, sempre secondo la Commissione, sarebbero quasi tutte di origine amhara. Popolazione che si è in effetti mobilitata nel conflitto contro i ribelli, al fianco delle truppe federali inviate da Addis Abeba.
Impossibile accertare le responsabilità
Si è trattato dunque di una rappresaglia? Impossibile rispondere con certezza, ad oggi. Le testimonianze raccolte dall’organizzazione non governativa Amnesty International e dai reporter presenti sul posto evocano tuttavia una pulizia etnica premeditata: “Volevano sterminarci”, ha affermato un agricoltore di 23 anni, ferito ma sopravvissuto al massacro. Ma alcuni tigrini rifugiati in Sudan accusano invece l’esercito federale di aver deliberatamente assassinato i civili. Versione confermata dal Fronte di liberazione, che da parte sua ha declinato ogni responsabilità affermando di essere estraneo alla strage.
Ciò che è chiaro è che ci vorrà molto tempo per conoscere la verità, complice il fatto che la regione è tagliata fuori dal mondo. Così come è chiaro che per la politica di pacificazione e riconciliazione dell’Etiopia – sbandierata all’inizio del suo mandato, nel 2018, dal primo ministro Ahmed – la strada appare ancora molto, molto lunga.
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