L’Europa verso il riarmo. A scapito degli aiuti allo sviluppo e per il clima

L’Europa ragiona su un piano da 800 miliardi e intanto vota per una maggiore sicurezza: inevitabilmente quei fondi verranno sottratti alle vere emergenze.

  • Il Parlamento europeo approva una risoluzione che prevede una difesa comune, ma spinge anche verso il riarmo.
  • Intanto la Commissione ragiona su un piano da 800 miliardi, che frenerebbe gli investimenti in aiuto allo sviluppo, welfare, mitigazione degli impatti del climate change.
  • L’Italia discute sul piano di riarmo ma intanto pensa alla riconversione dell’industria dell’auto in industria bellica.

Ma insomma, ci stiamo veramente riarmando? Da giorni, settimane ormai, si parla del fantomatico piano di riarmo da 800 miliardi di euro dell’Unione Europea, si racconta anche che sia stato già votato e approvato. Si insiste anche sull’idea di una difesa comune europea. E si discute sull’opportunità di continuare a fornire aiuti militari all’Ucraina contro l’aggressione della Russia. Tre temi in qualche modo ovviamente legati tra di loro dal comune denominatore delle armi, ma ben distinti. E uno di questi temi contiene anche una fake news.

Perché e come l’Europa pensa al riarmo

Partiamo proprio dalla fake news, che riguarda il piano di riarmo europeo. L’idea della Commissione prevedrebbe una spesa totale e graduale di 800 miliardi di euro, sulle spalle dei singoli paesi membri: il piano ReArm sarebbe incentivato dal fatto che le spese in armamenti militari potranno essere scorporati, e non andranno a pesare sui vincoli stabiliti dal Patto di Stabilità, che obbliga i governi a rimanere all’interno di un preciso rapporto tra il debito e il Pil.

Secondo la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, lo scopo del piano “è quello di liberare l’uso di finanziamenti pubblici nella difesa a livello nazionale. Gli Stati membri sono pronti a investire di più nella propria sicurezza se hanno lo spazio fiscale. E dobbiamo consentire loro di farlo. Ad esempio: se gli Stati membri aumentassero le loro spese per la difesa dell’1,5 per cento del Pil in media, ciò potrebbe creare uno spazio fiscale di circa 650 miliardi di euro in un periodo di quattro anni”. La seconda leva sarà invece “un nuovo strumento che fornirà 150 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri per investimenti nella difesa”. Totale, appunto 800 miliardi. Fin qui tutto vero.

Non è vero, invece, nonostante l’abbiano scritto molti giornali e l’abbiano detto molti politici, che il Parlamento europeo ha già dato l’ok al riarmo con un voto avvenuto lo scorso 12 marzo, e probabilmente non lo farà mai, anche se questo non vuol dire che il riarmo non ci sarà. Il 12 marzo infatti Il Parlamento europeo, con una risoluzione approvata con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni, ha “semplicemente” chiesto all’Unione Europea “di agire con urgenza e garantire la propria sicurezza, adottando anche azioni “vicine a quelle in tempo di guerra”. Un semplice parere, non avente forza di legge. Certo: la risoluzione, che riguarda soprattutto l’implementazione di una difesa comune a livello europeo, accoglie con favore anche il piano di riarmo recentemente presentato dalla Commissione, che però non faceva parte della risoluzione e quindi al momento non è ancora stato votato. Il punto è che il nuovo strumento di cui parla von der Leyen è previsto dall’articolo 122, comma 2, del Trattato sul funzionamento dell’Ue, che prevede “

Qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato.

Tra le righe di questo passaggio, c’è che tutto ciò può avvenire bypassando il Parlamento, che così non potrà esprimersi su questi 150 miliardi di finanziamenti: un fatto di cui si sono lamentati per esempio diversi europarlamentari italiani iscritti al gruppo dei socialisti e democratici, che nelle intenzioni avrebbero votato contro il ReArmEu, come Cecilia Strada, non ravvedendo una particolare urgenza per ricorrere a questo sotterfugio.

La ratio di questa proposta è chiara: da un lato la persistente minaccia della Russia sul fronte orientale, che spaventa anche i paesi vicini all’Ucraina e dunque la stessa Unione Europea. Dall’altro il rischio di un forte disimpegno da parte degli Stati Uniti di Donald Trump, tanto sul fronte russo-ucraino che nei finanziamenti alla Nato. Altrettanto chiare, però, sono le rimostranze di chi è contrario al piano di riarmo: intanto, un riarmo affidato ai singoli Stati è ben differente da un progetto di difesa comune, che anzi avrebbe tra i suoi effetti anche una razionalizzazione degli investimenti, anche per una questione di potere negoziale nei confronti delle industrie, e quindi semmai una loro riduzione. E anche gli aiuti all’Ucraina contro la Russia sono una questione a sé stante, solo in parte legata al riarmo. La paura della Russia, in ultimo, mal si concilia con la narrazione effettuata fino a pochi mesi fa: quella di un esercito russo ormai allo stremo e di un Paese fiaccato dalle sanzioni economiche inflitte dalla Ue. Non era così prima, o è sbagliato il racconto attuale?

A rischio welfare, clima, aiuti allo sviluppo 

Ma soprattutto, la corsa dell’Europa verso un’economia di guerra sottrarrà inevitabilmente risorse ad altri settori fondamentali: in Italia il dibattito è incentrato soprattutto sul welfare e sulla sanità (mancano almeno 40mila medici e infermieri, la spesa per il Servizio sanitario nazionale è in calo) ma a livello globale tornerà in secondo piano un’altra crisi sempre più urgente: il cambiamento climatico. E le sue drammatiche conseguenze sociali.

Per esempio, che fine farebbero i 300 miliardi di dollari all’anno in aiuti climatici alle nazioni più povere, promessi dai paesi ricchi al termine della Cop29 di Baku, in Azerbaigian, solo pochi mesi fa?  “Ora sarà molto più difficile rispettare quegli impegni” spiega a Bloomberg Green, Gareth Redmond-King, responsabile dei programmi internazionali presso l’Energy and Climate Intelligence Unit, un’organizzazione no-profit britannica. E il dirottamento di miliardi di euro dai finanziamenti allo sviluppo, destinati a contrastare gli effetti devastanti di inondazioni, siccità e cicloni nei paesi più poveri, rischia infatti di alimentare l’inflazione, aumentare i flussi migratori e indebolire il peso geopolitico dell’Unione Europea.

La soluzione più semplice ed efficace su come trovare questi fondi, alla fine, sarebbe sempre la stessa: una tassa su profitti ed extraprofitti, per esempio quelli delle imprese energetiche, o una mini-patrimoniale per i redditi più alti. Ma i primi dati disponibili fanno capire che le intenzioni sono altre: nel Regno Unito (che non fa parte della Ue ma insieme alla Francia sta avendo l’atteggiamento più bellicista nell’Europa geografica) il primo ministro Keir Starmer ha annunciato tagli per 6 miliardi di sterline (circa 7,6 miliardi di dollari) agli aiuti internazionali per finanziare un aumento della spesa militare. In Germania, il governo ha in programma una riduzione di quasi un miliardo di dollari nei fondi per lo sviluppo, mentre nei Paesi Bassi il taglio sarà di 2,4 miliardi di euro (circa 2,5 miliardi di dollari). Misure simili sono in fase di attuazione anche in Finlandia, Svezia e Svizzera. Redmond-King ha sottolineato come questa ritirata poco strategica non potrà non avere conseguenze dirette su una vasta gamma di materie prime provenienti dai paesi esportatori verso l’Europa: minori protezioni contro i disastri climatici potrebbero far salire i prezzi di prodotti come caffè, cacao e banane. Inoltre, i tagli attuali ai finanziamenti per il clima potrebbero portare a costi ben più elevati nel prossimo futuro. Paradossalmente, il ritiro dei governi occidentali dai finanziamenti per lo sviluppo rischia di cedere influenza in regioni strategicamente rilevanti a paesi considerati ostili dall’Europa, come la Russia. “Tagliando gli aiuti climatici ai paesi in via di sviluppo, rischiamo di eliminare un fattore di stabilizzazione, lasciando spazio ad altri attori, come la Russia, per colmare il vuoto”.

A che punto è il dibattito in Italia 

In Italia il dibattito è molto ampio al momento, e corre su diversi binari. C’è quello politico, che vede il governo piuttosto diviso tra i favorevoli al riarmo (Forza Italia e Fratelli d’Italia, con remore sul tipo di investimenti, che si preferirebbe privati piuttosto che pubblici) e i fortemente contrari (la Lega). Anche l’opposizione è abbastanza confusa, al punto che la manifestazione di Roma del 15 marzo ha visto la partecipazione tanto di ‘bellicisti’ quanto di ‘pacifisti’, tra molti distinguo e un solo vero comun denominatore: la richiesta generica di una Europa più unita e più forte. Quella di una difesa comune europea, propugnata già dal Manifesto di Ventotene del 1941, sembra la soluzione mediana più gradita alle opposizioni: anche da qui nasce forse l’intemerata contro il Manifesto redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi dal confino dell’isola pontina, fatto dalla premier Giorgia Meloni alla Camera.

Sul come trovare eventualmente i fondi per aumentare la spesa dell’1,5 per cento del Pil, una proposta l’ha fatta il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso: riconvertire l’industra dell’automobile, da anni ormai in crisi, in industria bellica: “il nostro obiettivo è mettere in sicurezza le imprese e tutelare i lavoratori – ha detto Urso – per questo incentiviamo le aziende della filiera a diversificare e riconvertire le proprie attività verso settori ad alto potenziale di crescita come la difesa, l’aerospazio, la blue economy, la cybersicurezza”. L’idea è già stata respinta in audizione alla Camera dal presidente e ad di Stellantis, il gruppo che comprende la Fiat, John Elkann: “Non riteniamo che il futuro dell’auto sia l’industria bellica, futuro dell’auto è legato al fatto che l’Europa decidano in termini di politica industriale dove è importante mettere le risorse”. Ma soprattutto, l’idea della riconversione dell’automotive era contenuta già nel Green new deal della scorsa legislatura europea, in cui si ipotizzava il passaggio a produzioni sostenibili (auto elettriche, produzione di energie rinnovabili): il solo pensarlo, evidentemente, rappresenta un passo indietro.

 

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