Gli impianti dell’ex Ilva di Taranto vanno chiusi se inquinano ancora

La Corte di giustizia dell’Ue dice basta alle proroghe in mancanza di una valutazione certa sull’impatto su ambiente e salute: cosa cambia per l’ex Ilva.

  • La Corte di giustizia dell’Unione europea chiede la chiusura degli impianti dell’ex Ilva, nel caso in cui la valutazione di impatto sulla salute presenti gravi rischi per la salute.
  • Acciaierie d’Italia, forte di una valutazione appena pubblica, afferma che la situazione ambientale a Taranto è nettamente migliorata e che non ci sono pericoli.
  • Cittadini, medici e associazioni locali però sottolineano che la valutazione non tiene conto dei rischi del benzene, un cancerogeno i cui picchi sono stati registrati solo nel 2023.

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che le autorità nazionali devono effettuare una valutazione degli impatti sulla salute umana prima di autorizzare l’operatività dell’impianto siderurgico dell’ex Ilva di Taranto anche per i prossimi anni. E che in presenza di gravi rischi per l’ambiente e la salute, devono sospendere le operazioni anziché concedere proroghe. La sentenza si basa sulla direttiva europea del 2010 relativa alle emissioni industriali, e sulla della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Corte ha articolato la sua decisione in tre punti principali: secondo la Corte, tutti gli Stati membri, e dunque in questo caso l’Italia con l’ex Ilva, devono includere una valutazione preliminare degli impatti ambientali e sulla salute umana nei procedimenti di rilascio e riesame delle autorizzazioni per l’esercizio delle installazioni industriali, che attualmente è affidato alla società Acciaierie d’Italia, in amministrazione straordinaria. Nella valutazione, le autorità devono considerare non solo le sostanze inquinanti prevedibili, ma anche tutte quelle scientificamente note come nocive, anche se non valutate durante l’autorizzazione iniziale, e questo è un punto fondamentale per il caso Ilva. E soprattutto, la Corte di giustizia sottolinea che, se non si risolvono i problemi, l’ex Ilva va chiusa. 

 

Cosa deve fare ora l’Italia con l’ex Ilva

A seguito della sentenza, l’Italia deve intraprendere azioni immediate per conformarsi alle disposizioni della Corte di giustizia dell’Ue. Le autorità italiane dovranno effettuare valutazioni preventive, prima di rilasciare o rinnovare autorizzazioni per l’ex Ilva, degli impatti sull’ambiente e sulla salute umana, garantendo che tutti gli inquinanti noti siano presi in considerazione. E se verranno identificati pericoli gravi e rilevanti, le operazioni dell’ex Ilva dovranno essere sospese immediatamente.

Acciaierie d’Italia, in amministrazione straordinaria, ha subito commentato sentenza, sottolineando si riferisce a fatti del 2013, “già ampiamente superati grazie agli investimenti significativi nel risanamento ambientale, come la copertura dei parchi minerari, un’opera unica in Europa” e che la nuova gestione straordinaria si è impegnata a rispettare tutte le prescrizioni del Piano ambientale. Secondo la società che attualmente ha in gestione gli impianti dell’ex Ilva, per i quali l’Italia ripetutamente condannata dall’Unione Europea, “recentemente, è stata consegnata al Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica e al Ministero della salute una Valutazione di impatto sanitario, dalla quale emergono elementi rassicuranti, pur restando in attesa delle valutazioni degli organi competenti”. In teoria, dunque, non dovrebbero, esserci ripercussioni immediate. Quella valutazione, che serviva proprio a decidere sull’autorizzazione ambientale alla ex Ilva, parla di tumori in calo e bassi rischi per la salute per i cittadini dell’area di Taranto. Un’area nella quale, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità, a pieno regime Ilva causava da 270 a 430 morti premature ogni dieci anni.

In effetti però la sentenza della Corte va ad impattare proprio su quel tipo di valutazione: Alessandro Marescotti, responsabile di PeaceLink, una rete che riunisce diverse associazioni che da anni si occupano della questione tarantina, sottolinea infatti che quella valutazione di impatto sanitario non ha preso in considerazione le concentrazioni di benzene: “Il benzene è un cancerogeno di prima classe e nel solo 2023 sono stati registrati più picchi che nei 10 anni precedenti; quindi proprio nell’anno in cui tutte le prescrizioni risultavano attuate sulla carta, la situazione ha registrato un peggioramento”. Non aver considerato il benzene, peraltro, viola proprio una delle imposizioni della sentenza della Corte, ossia che “le autorità devono considerare non solo le sostanze inquinanti prevedibili, ma anche tutte quelle scientificamente note come nocive, anche se non valutate durante l’autorizzazione iniziale”.

Sui social i cittadini di Taranto erano insorti, affermando che la polvere rossa e cancerogena, prodotta dall’acciaieria, continua a depositarsi ovunque in città, nonostante l’impianto proceda a funzionare a basso regime. “Lo studio rassicura anche sulla salute dei bambini – spiegava Marescotti – I ricoveri per malattie respiratorie sarebbero anche più bassi della media regionale. Ma ancora una volta i piccoli del quartiere Tamburi (da esempio il più esposto alle polveri dell’Ilva, ndr) sarebbero sottoposti a rischi non immediatamente quantificabili: sono i rischi neurotossici”. Rischi che non sono mai stati smentiti da nessuno studio e da nessuna valutazione di impatto, come più volte ha avuto modo di sottolineare Annamaria Moschetti, pediatra e membro dell’Associazione medici per l’Ambiente: “Noi pediatri e l’ordine dei medici siamo fortemente preoccupati per l’immissione delle sostanze neurotossiche a fronte delle evidenze scientifiche che mostrano i bambini che vivono a ridosso dell’area industriale soffrono una riduzione di quoziente intellettivo. Non è dimostrato un nesso di causa ed effetto, ma non credo che bisogna farsi forte del principio di precauzione, questo ci sembra importante”.

Le preoccupazioni occupazionali e le prospettive future

Certo, emergono anche preoccupazioni occupazionali rispetto a una possibile chiusura definitiva dell’impianto dell’ex Ilva: attualmente, nello stabilimento di Taranto si producono circa quattromila tonnellate di acciaio al giorno. Acciaierie d’Italia ha annunciato un ricorso massiccio alla cassa integrazione straordinaria per 5.200 addetti, di cui 4.400 a Taranto. La consultazione per la concessione della cassa integrazione inizierà il 2 luglio. Il futuro dell’ex Ilva dipenderà dalla capacità di garantire adeguati livelli produttivi, ma anche alla capacità di conformarsi alle nuove disposizioni ambientali e sanitarie. Ma come dice Marescotti la sentenza “è un monito per chi pensa che la salute e l’ambiente possano essere sacrificati sull’altare della produzione ad ogni costo. È la dimostrazione che la giustizia, anche quando tarda ad arrivare, può giungere se lo si vuole e se si lotta. Taranto oggi respira un’aria di speranza”. Ora spetterà al Tribunale di Milano valutare se le autorizzazioni ricevute dall’azienda mettono in pericolo la salute pubblica o meno, o comunque se siano sufficienti o meno.

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