- La relazione annuale sull’export italiano di armi conferma la crescita dei numeri: nel 2023 affari per 6,3 miliardi di euro.
- Preoccupano le esportazioni verso Arabia Saudita, Turchia, Kuwait che contribuiscono all’attuale instabilità geopolitica.
- L’allame di Vignarca di Rete pace e disarmo: “La legge che regola l’export è a rischio, potrebbe essere l’ultima volta che abbiamo un quadro chiaro sull’export di armi”.
L’export italiano di armi vive un periodo di assoluto splendore, oggi ne abbiamo una nuova conferma, e presto potrebbe essere sottratto al controllo della società civile. Nella recente Relazione annuale sulle esportazioni di armi, presentata in Parlamento a fine marzo come previsto dalla legge 185/90 sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, sono stati evidenziati dati cruciali relativi al 2023, che confermano trend già noti ma rivelano anche dettagli importanti che ci permettono di rafforzare la comprensione dell’industria bellica italiana e dei suoi flussi finanziari.
E proprio qui sta il punto: mentre il notevole incremento del +86 per cento nell’export italiano di armi negli ultimi 5 anni era noto grazie al rapporto del Sipri, lo Stockholm international peace research institute, ora abbiamo informazioni dettagliate, per esempio, sulle banche coinvolte nell’export, sui principali paesi destinatari e sulle criticità legate a determinati scambi commerciali.
Ma dall’anno prossimo questi dati, fondamentali per innescare un dibattito pubblico su una questione dalle mille implicazioni etiche e geopolitiche come quella della vendita di armi, potremmo non averli più a disposizione. Tutto perché la legge 185/90 in questione è fortemente a rischio nelle sue fondamenta: il provvedimento è stato già depotenziato da una recente modifica in Senato, adesso la parola spetta alla Camera ma se nel secondo passaggio parlamentare non dovessero essere ripristinati alcuni punti chiave il danno, a livello di trasparenza, sarebbe notevole. A lanciare l’allarme sono in molti: l’ha fatto Banca Etica, istituto bancario che per statuto non investe in export militare, l’ha fatto recentemente anche Rete pace e disarmo, il network composta di decine di associazioni, organizzazioni, sindacati, movimenti della società civile italiana guidato da Francesco Vignarca: proprio nei giorni scorsi le associazioni sono state ascoltate in audizione alla Camera, nell’ambito dell’esame della modifica alla legge 185/90 per esprimere tutte le loro preoccupazioni.
Il boom dell’export italiano di armi nel 2023
I numeri, intanto: nel 2023, l’export italiano di armi è aumentato significativamente, raggiungendo un valore di 6,31 miliardi di euro, con un notevole incremento delle autorizzazioni individuali di esportazione, ovvero quelle effettuate dall’Italia verso singoli Paesi e su singoli prodotti: tale incremento ha superato il 24 per cento, portando le autorizzazioni a 4,766 miliardi di euro. Le licenze globali, sia di progetto che di trasferimento, per co-produzioni strutturate con Paesi Ue-Nato, dunque concesse a livello comunitario, hanno mostrato un aumento del 37%, arrivando a un valore di poco meno di 1,5 miliardi di euro. Anche se non ai livelli record del triennio 2015-2017, queste cifre confermano una crescita strutturale nell’export militare italiano.
Tra gli 82 paesi destinatari delle esportazioni nel 2023, emergono dati significativi che richiedono una valutazione critica. Francia, Ucraina (solo al secondo posto), Stati Uniti e Arabia Saudita si posizionano ai vertici delle autorizzazioni concesse, mentre paesi come Turchia, Azerbaijan e Kuwait destano preoccupazione per la loro situazione politica e per il coinvolgimento in conflitti o controversie internazionali che riguardano tutto il Medio Oriente. La stessa autorizzazione di esportazioni verso l’Ucraina, sottolinea Vignarca, nonostante lo stato di guerra in corso, solleva interrogativi sulla coerenza con i trattati internazionali e sul rispetto delle normative vigenti. Oltre a costituire un vero e proprio paradosso: “In tutti questi anni il Parlamento ha autorizzato più volte la cessione di armi all’Ucraina in deroga alla legge, una cosa che non serviva perché effettuata dallo Stato. Mentre invece si scopre che nel frattempo molte aziende private hanno continuato a vendere armi e materiali a Kiev, senza autorizzazioni”.
Le principali operazioni bancarie legate alle esportazioni di armi sono state condotte da gruppi come UniCredit, IntesaSanpaolo, Deutsche Bank, Banca Popolare di Sondrio e Banca Nazionale del Lavoro. UniCredit emerge come la “banca più armata”, seguita da IntesaSanpaolo, con significative transazioni finanziarie relative alle operazioni di export militare.
Il rischio di perdita di trasparenza e controllo democratico
Nel frattempo però la legge 185/1990 ha subito una sostanziale modifica in Senato, per volere governativo, che se venisse confermata anche alla Camera porterebbe al rischio imminente di una perdita di trasparenza e controllo sui flussi finanziari e sulle operazioni di export militare. L’attuale ddl governativo infatti potrebbe erodere in modo significativo la quantità e la qualità dei dati che devono essere trasmessi al Parlamento, per esempio riducendo o eliminando informazioni vitali sulle transazioni finanziarie con le banche e sui dettagli delle operazioni di esportazione di armamenti. Questo, come avvisa Rete pace e disarmo, potrebbe compromettere la capacità del Parlamento di monitorare e regolare in modo adeguato il commercio di armi, con potenziali implicazioni negative sulla sicurezza internazionale e sui diritti umani.
Passa in tutto in mano al governo
I problemi della riforma, secondo Vignarca, sono di vario ordine: innanzitutto, si dà un grande potere nella decisione di quali autorizzazioni concedere “a un comitato interministeriale (Cisd) composto tra gli altri da presidente del Consiglio, dal ministro della Difesa, dal ministro degli Esteri: è giusto che la politica si prenda le proprie responsabilità su un tema così delicato, ma al contempo si depotenzia l’Uama, l’unità per l’autorizzazione dei materiali di armamento, l’organo tecnico che deve vigilare sulla corretta attuazione della legge, che ogni giorno verifica se, paese per paese, sono mutate le condizioni originarie che consentivano di esportare armi: quella per esempio che ha deciso di sospendere nuove licenze subito dopo l’inizio della guerra a Gaza. Ma che così potrebbe diventare solo un passacarte dei ministeri”.
Viene ignorato il trattato europeo sul commercio di armi
Il secondo punto è la mancata adesione al trattato sul commercio di armi siglato dall’Unione Europea nel 2014: “l’ultimo aggiornamento della legge italiana risale al 2013, e quindi era normale che non ci fosse un riferimento – spiega Vignarca – Ora però dovrebbe essere inserito, perché l’Italia deve sottostare innanzitutto a delle norme internazionali e poi semmai varare leggi più restrittive. E invece il governo in carica non vuole nessun riferimento perché cerca di fare in modo che i criteri siano solo quelli della legge nazionale. Noi abbiamo fatto negli anni scorsi un’azione legale contro l’invio delle armi italiane all’Arabia Saudita che le usava in Yemen: alla fine tutto l’iter si è concluso con un’archiviazione perché l‘Italia ha violato sì il trattato, ma non ha violato la propria legge… Allora abbiamo fatto ricorso alla Corte europei dei diritti umani, ma ci vuole molto tempo”. E nel frattempo la vendita di armi usate nello Yemen è proseguita.
Addio trasparenza su banche e aziende coinvolte
Il terzo punto riguarda la trasparenza, che per Vignarca “è l’unica cosa su cui la legge ha sempre funzionato, anche se non è riuscita a fermare degli export di armi che secondo noi erano problematici. Ma almeno lo sapevamo, avevamo tutta una serie di informazioni che ci permettevano di ricostruire i commerci e di intervenire con azioni legali”. Con la nuova normativa invece “la relazione al Parlamento sarà più povera, e non conterrà alcun elemento sulle banche coinvolte, e di conseguenza anche sulle aziende. E questo andrebbe a svuotare completamente il sistema di controlli”.
Allontanate ong e riconversione
In più, sottolinea Vignarca, ci sono anche altri due elementi, “forse minori ma comunque significativi”: l’eliminazione dell’ufficio a Palazzo Chigi predisposto a valutare eventuali progetti di riconversione da parte di aziende costruttrici di materiale bellico, importante in una fase di auspicata transizione, “e della facoltà da parte dell’Uama di consultare, nell’ambito del proprio lavoro di analisi delle situazioni paese, anche le organizzazioni non governative: qualcosa che dice veramente molto dell’intento del governo”.
A proposito, le armi a Israele le diamo ancora o no?
E a proposito di trasparenza, con la nuova legge già in vigore sarebbe stato possibile verificare se l’Italia avesse veramente interrotto le forniture di armi a Israele dopo il 7 ottobre oppure no, come pure è stato paventato? “Ora sappiamo, grazie alla relazione, che dopo il 7 di ottobre non sono state rilasciate nuove autorizzazioni, ma che sono state consegnate delle armi che erano parte di accordi precedenti – fa chiarezza Vignarca – Ma già così ci abbiamo messo 5 mesi, perché c’è il problema che le relazioni sono annuali. In questo il nuovo Cisd potrebbe essere anche utile per avere deliberazioni aggiornate. Ma come detto, serve un bilanciamento di poteri con un ufficio tecnico”. E soprattutto indipendente.
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