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Quando la fabbrica diventa giardino
Alberi, piante rampicanti e specchi d’acqua. Negli stabilimenti del Gruppo Prada il verde avvolge l’architettura.
La natura, con i suoi processi e le sue geometrie, è sempre stata ispiratrice dei manufatti umani. A partire dai più piccoli utensili preistorici, fino alle grandi architetture contemporanee. Solo in tempi più recenti però si è iniziato a ragionare seriamente su una conciliazione, o meglio una riconciliazione, dell’ambiente naturale con l’ambiente costruito dagli esseri umani.
Tra i pionieri di questa maniera di costruire, l’architetto statunitense Emilio Ambasz che a partire dagli anni Novanta ha concentrato i suoi sforzi e i suoi studi nel trovare soluzioni per integrare architettura e natura. Nel suo lavoro gli edifici, avvolti da piante e alberi, mirano a diventare un aspetto della natura fatta dall’uomo e non un elemento esterno ed estraneo all’ambiente naturale.
In questo solco e in contemporanea con il lavoro di Ambasz, nel 1999 in Toscana l’architetto Guido Canali progettava per il Gruppo Prada il primo dei poli industriali che saranno poi definiti, a ragione, fabbriche-giardino. Fabbriche in cui la presenza di piante, alberi e fiori è massiccia; luoghi di lavoro e produzione dove la progettazione del verde non è un semplice decoro, ma parte integrante dell’architettura.
Le fabbriche-giardino del Gruppo Prada
Nate in un arco temporale che va dal 1999 a oggi e tutte ideate da Guido Canali, le fabbriche-giardino del Gruppo Prada nascono da un intento molto pratico: rispettare la dignità e la salute psicofisica di chi tra quelle mura e quei giardini lavora e dunque fatica.
Infatti in ambienti di lavoro verdi c’è un aumento del 26 per cento delle funzioni cognitive del lavoratore e allo stesso tempo si riducono del 30 per cento le malattie, come evidenziato da un recente studio dell’università di Harvard.
Ma non solo, tra i criteri progettuali c’è anche la volontà di rispettare i territori in cui sorgono le fabbriche, cercando di non costruire ex novo e recuperare strutture già esistenti, dove possibile. Una filosofia applicata non solo nelle fabbriche-giardino: infatti dei 23 siti industriali del Gruppo Prada, per un totale di 200mila metri quadri, 17 sono il risultato di recuperi di aree abbandonate e degradate.
Inoltre le fabbriche-giardino di Guido Canali, prevalentemente disseminate tra la Toscana e le Marche e più precisamente nella provincia di Arezzo e di Fermo, si inseriscono armoniosamente nel paesaggio collinare circostante.
C’è da dimenticarsi i classici shed grigi, ovvero le coperture dentate dei capannoni, che tanto popolano l’immaginario industriale. Qui a fare da padrone sono giardini pensili, specchi d’acqua, rampicanti lasciate cresce quasi selvaggiamente, passeggiate botaniche, distese di fiori.
Ma anche giardini d’inverno e grandi vetrate, per lasciare entrare la luce naturale e permettere che gli esterni siano visibili, come nel caso dello stabilimento di Montegranaro e Montevarchi, dedicati alle calzature.
Ambiente naturale e ambiente costruito
Il rapporto tra incontaminato e edificato invece è il perno intorno a cui ruota il progetto dello stabilimento di Valvigna, sito recuperato e bonificato, dove dal 2018 è ospitata la divisione produttiva e lo sviluppo delle collezioni pelletteria.
Il rigore e le linee essenziali dell’architettura conversano con la vitale libertà degli elementi naturali, creando un ambiente armonico e quanto più distensivo possibile. A contribuire a questo risultato, oltre agli accorgimenti già integrati nelle altre sedi, anche filari di viti, gradoni verdi, terrazzamenti e quinte scenografiche.
“La massiccia presenza di verde, esaltata da specchi d’acqua anche con funzione di riserva energetica, è parte integrante dello stabilimento”, sottolinea l’architetto Guido Canali.
Il verde dentro
Ma è nel polo logistico di Levanella, dotato di impianto di climatizzazione a geotermia e ricoperto su tutto il tetto di pannelli fotovoltaici, che la natura entra all’interno e crea nuovi spazi e superfici, sovrapponendosi all’architettura.
Nella mensa, luogo conviviale per eccellenza in un ambiente di lavoro, il verde scandisce lo spazio tra i tavoli e fodera le pareti. Un pergolato di 1.500 metri quadri, posto a dieci metri dal suolo, ospita inoltre numerose piante rampicanti che formano un denso tappeto che filtra la luce solare.
Nell’Hub di Levanella le aree verdi arrivano a occupare più del 50% dell’intera superficie della struttura, con giardini pensili, dune e zone relax in cui è stata mantenuta intatta la vegetazione tipica della macchia mediterranea per preservare la varietà della flora locale.
Il capitalismo illuminato
Per quanto questo specifico genere di interventi rientri a pieno titolo nelle cosiddette nature based solutions, ovvero atti finalizzati a creare benefici attraverso l’aumento e la valorizzazione di aree verdi, l’attenzione alla creazione di contesti di lavoro favorevoli al lavoratore non è una novità dei tempi più recenti.
Si tratta infatti di una delle accortezze del cosiddetto capitalismo illuminato, una maniera di generare profitti secondo principi più progressisti del tradizionale capitalismo industriale.
In Italia il primo esempio illustre in questo senso, nonché patrimonio dell’umanità Unesco dal 1995, è il villaggio industriale di Crespi d’Adda, nella provincia di Bergamo, in Lombardia.
Nato a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, il villaggio offriva ai lavoratori una serie di servizi e strutture che rendevano la vita più semplice e comoda. Una casa con orto e giardino, la scuola, la piscina, la chiesa e il dopolavoro.
Un concetto poi ripreso e implementato da Adriano Olivetti nel grande progetto industriale e socio-culturale di Ivrea, anch’essa patrimonio tutelato dall’Unesco dal 2018.
Qui oltre alla mensa, ai lavoratori erano forniti tutta una serie di servizi per rendere la vita nella città industriale più agevole: l’asilo nido, l’assistenza sociale, le case del borgo Olivetti e del quartiere Castellamonte, e addirittura biblioteche e cineteche all’interno della fabbrica.
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