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Fashion experience, a Milano un’installazione per scoprire la verità su quello che indossiamo
Vizi e potenziali virtù dell’industria della moda. Fashion experience è un viaggio nella filiera che vuole diventare sostenibile.
“La verità su quello che indossi” è l’obiettivo di Fashion experience, l’installazione interattiva inaugurata a Milano venerdì 21 giugno che conduce il visitatore attraverso alcuni momenti della filiera della moda e del tessile. La visita all’installazione è accompagnata da un decalogo di azioni da intraprendere per essere un consumatore responsabile: anche le piccole cose apparentemente ovvie fanno la differenza, a partire dal muoversi in auto o a piedi per andare a fare shopping.
Organizzata da Mani Tese e dal Comune di Milano con fondi dell’Agenzia per la cooperazione italiana allo sviluppo, la mostra occupa tre padiglioni sferici situati in piazza XXIV maggio ed è visitabile gratuitamente fino al 30 giugno.
Cosa si può fare con Fashion experience
Si inizia con l’impatto ambientale di un prodotto ben conosciuto, un paio di jeans, la cui produzione, si legge, richiede 3.800 litri d’acqua, 12 metri quadri di terreno e 33 chilorammi di CO2 equivalente. Numeri enormi se si pensa che ogni giorno ne vengono prodotti 3,5 miliardi. È un circolo vizioso: la vita dei capi si è accorciata, complice la scarsa qualità, e noi acquistiamo sempre di più, complice il costo basso. Ma il costo è basso solo sul cartellino, perchè il prezzo vero lo paga qualcun altro. È la cosiddetta fast fashion, uno dei più impattanti a livello ambientale e uno dei sistemi strutturalmente a più elevato rischio di sfruttamento di lavoratori e lavoratrici.
Il secondo padiglione affronta proprio le implicazioni sociali della filiera: la realtà aumentata aiuta a raccontare la storia di una bimba indiana che cuce a macchina per portare a casa due dollari al giorno. Nel migliore dei casi riuscirà a conciliare il lavoro con lo studio, nel peggiore dovrà abbandonare il suo desiderio di diventare un medico. “Ma in questa parte di mondo i sogni non si avverano mai”, racconta la voce. Anche in questo caso, cifre da capogiro: il lavoro minorile riguarda 152 milioni di bambini nel mondo che arrivano a lavorare anche 12 ore al giorno.
È nell’ultimo padiglione che si svela l’anima dell’installazione e il suo obiettivo educativo: ogni visitatore è un consumatore e ogni consumatore è un attivista perché ha nelle proprie mani la possibilità, nonché responsabilità, di scegliere la filiera giusta e mostrare alle aziende la direzione da prendere. Innanzitutto attraverso le proprie abitudini di acquisto, ma anche facendo sentire la propria voce e richiedendo una moda #madeinjustice – come dice lo slogan della campagna. Per questo in questa ultima tappa oltre a mostrare casi di aziende innovative che hanno saputo conciliare profitto e diritti, i monitor guidano il visitatore affinché possa contattare direttamente via mail i responsabili di alcuni grandi marchi per chiedere trasparenza, responsabilità sociale e ambientale.
“Già dopo la prima mail una di queste aziende ha chiesto di incontrarci per un confronto”, afferma Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese. Ma non si sbilancia, sa che la strada è lunga e il greenwashing è sempre in agguato.
Perchè proprio la moda?
Uno dei motivi per cui Mani Tese ha scelto il settore della moda e del tessile è perché lo ritiene un settore maturo, pronto a fare il salto di qualità necessario ad innescare il cambiamento, anche in vista degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite per il 2030. Già ci sono movimenti che vanno nella direzione giusta, marchi che si propongono obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale e una crescente attenzione a questi aspetti anche da parte del consumatore.
“Purtroppo non ci sono scorciatoie per capire se un’azienda lavora in maniera responsabile”, incalza De Salvo. “Occorre informarsi e capire, anche se non è facile”. Guardare non solo dietro alle etichette dunque, ma anche alle parole; andare oltre le splendenti dichiarazioni ad effetto che hanno il solo scopo di mettere a tacere i meno esperti, facciate vuote che troppo spesso non sono supportate da fatti concreti.
Leggi anche: Fashion victims, il documentario sulle operaie tessili indiane, le vere vittime della moda
Sempre secondo De Salvo bisognerebbe partire dai piani di due diligence, strumenti imprescindibili di cui ogni azienda responsabile dovrebbe dotarsi. Questo significherebbe svolgere una valutazione dei rischi esistenti nella filiera, stendere policy per evitare che questi rischi si realizzino e implementare procedure per gestire le violazioni nel caso queste accadano, oltre che per rimediare ai danni prodotti e compensare le vittime. Tutto ancor prima di attivare l’iter giudiziario, visto che in certi Paesi l’accesso alla giustizia è difficile se non impossibile.
Invece, ci sono aziende che nonostante dichiarino di avere una filiera trasparente non riescono a fare più di qualche passo indietro nella catena di tracciabilità dei propri fornitori; o pur sostenendo di essere allineati con gli standard di responsabilità sociale e ambientale (ad esempio quelli legati a lavoro minorile, parità di genere o lotta al cambiamento climatico), non hanno policy interne per affrontare e contrastare queste violazioni.
La filiera del tessile è lunga e ogni passo è potenzialmente a rischio, spiega De Salvo, ma la parte più difficile da investigare e sulla quale non si pone abbastanza attenzione è quella che precede il confezionamento, ad esempio tutto quello che ha a che fare con la coltivazione, filatura, tessitura del cotone . “Le aziende hanno uffici i cui muri sono coperti di certificazioni ma questo non significa nulla”. Anzi, certificazioni fittizie sono le foglie di fico che spesso coprono cattiva gestione o violazioni di diritti.
Non bisogna dimenticare però la responsabilità dei governi, e anche su questo fronte si stanno facendo passi avanti: in molti paesi esistono leggi nate per contrastare lo sfruttamento del lavoro e la schiavitù moderna, garantire il rispetto di diritti fondamentali dei lavoratori e la loro sicurezza. In particolare ricordiamo il Bangladesh Accord, nato a seguito della tragedia del Rana Plaza a Dhaka, il Modern Slavery Act in Inghilterra o il Devoir de Vigilance in Francia. In attesa di una direttiva europea, i consumatori dovranno continuare a fare pressione, e la società civile a controllare l’operato dei marchi.
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