Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Fashion victims, il documentario sulle operaie tessili indiane, le vere vittime della moda
Il documentario Fashion victims sviscera l’industria tessile indiana, al limite dell’umanità. Ne parliamo con chi lo ha realizzato, correndo grandi rischi imposti da una cultura di terrore e omertà.
Diciamo di conoscere la moda, ma in fondo non ne sappiamo quasi nulla. I volti e le storie di chi sta dietro agli abiti che sfoggiamo nella nostra quotidianità sono tanto lontani quanto spesso sconosciuti al nostro immaginario. A svelare gli scenari occulti dell’industria tessile indiana ci pensa il nuovo film documentario Fashion victims diretto dal regista Alessandro Brasile insieme a Chiara Ka’ Hue Cattaneo e presentato in anteprima mondiale il 28 marzo al cinema Oberdan all’interno della 29esima edizione del Festival Cinema Africano, Asia e America Latina. Riproposto il 23 aprile al cinema Mexico di Milano, la proiezione è stata uno degli eventi clou della Fashion revolution week, l’iniziativa lanciata dal movimento Fashion revolution (coordinato in Italia dalla stilista Marina Spadafora) per commemorare la strage del Rana Plaza, la fabbrica d’abbigliamento a Dacca in Bangladesh che crollò nel 2013 causando la morte di oltre mille operai, e sensibilizzare consumatori e aziende sull’esigenza di adottare un modello di moda sostenibile.
[vimeo url=”https://vimeo.com/325497286″]Video Cano Cristales[/vimeo]
Fashion victims, il documentario sull’industria tessile in India
Ambientato nel Tamil Nadu, stato dell’India meridionale, il documentario mostra le dinamiche che governano il reclutamento di milioni di adolescenti e giovani donne impiegate nelle fabbriche per la produzione di capi d’abbigliamento del pronto moda, il “fast fashion”, per il mercato locale e internazionale. Si tratta di un progetto auto-prodotto dagli stessi registi che ha visto collaborare diversi professionisti, tra cui l’organizzazione Social awareness and voluntary education (Save) che ha supportato la squadra nella realizzazione del documentario in un contesto tanto difficile quanto pericoloso per chi decide di intraprendere un’attività giornalistica o documentaristica percepita come poco gradita.
Lo stesso regista, Brasile, racconta di aver più volte corso grandi rischi per la sua incolumità. Il primo giorno di riprese ha subito un’aggressione e, una volta che è riuscito a introdursi in una delle fabbriche, non solo non ha ottenuto il permesso di realizzare immagini ma è stato schedato in un sistema non ufficiale. “Sono stato fotografato e il fixer ha testualmente detto: ‘questa non ci voleva, adesso la tua faccia è su tutti i telefonini dei responsabili delle fabbriche nei dintorni’. Da lì in poi sarebbe stato sicuramente meglio non farsi vedere in giro”.
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L’industria tessile indiana raccontata dalle giovani operaie
Protagoniste della narrazione sono le ragazze provenienti da zone rurali e povere che approdano in stabilimenti produttivi dove sono costrette a vivere negli ostelli annessi alle fabbriche e a lavorare dai tre ai cinque anni con turni fino a venti ore al giorno, senza percepire alcuno stipendio mensile. Lo schema prevede che, fatta eccezione di una misera somma di denaro per soddisfare le esigenze quotidiane, le ragazze debbano percepire uno stipendio cumulativo tra i cinquecento e gli ottocento euro che gli viene pagato solo al termine del periodo stabilito. In questo lasso di tempo spesso che cadono vittime di incidenti sul lavoro, mancati pagamenti, suicidi, violenze sessuali e addirittura omicidi.
“Le ragazze sono pienamente consapevoli della condizione che vivono quotidianamente – dice Brasile –. Non tutte né le loro famiglie sono consapevoli dei possibili rischi nel momento in cui scelgono il lavoro nelle fabbriche tessili. Questa è la loro quotidianità, ma naturalmente non la norma a cui aspirano. Tutte le intervistate rivelano di avere aspirazioni di normale felicità: studiare, far studiare sorelle e fratelli minori, provvedere ai propri genitori, parlare inglese per accedere a un mondo più grande e più lontano. Per loro il lavoro rappresenta un’importante occasione di emancipazione sociale ed economica, un’occasione che non possono scegliere di non cogliere. Si adeguano alle circostanze, non conoscendo il sistema nel suo complesso né la filiera tessile globale, e non potendo agire per cambiare radicalmente né l’uno né l’altra”.
Tra terrore e omertà, il grande crimine della moda
L’industria tessile nel sud dell’India genera enormi profitti, così il sistema di schiavitù che domina queste attività viene silenziosamente nascosto sia dallo Stato che dalle aziende. Le stesse operaie hanno paura di raccontare ciò che accade nelle fabbriche, infatti Brasile ha incontrato non poche difficoltà nell’individuare delle ragazze disposte a condividere le loro esperienze.
“Durante le riprese con una delle ragazze che aveva accettato di essere intervistata, Mercy Angela Mary, subito dopo il ciac lei non proferiva parola. La cosa si è ripetuta per un paio di volte, con attese di decine di minuti, senza che capissimo cosa stesse accadendo. Non ha parlato fino a quando non è arrivato uno zio che le ha dato il permesso di raccontare. Questo è accaduto in un villaggio dove anche il solo fatto di arrivare in auto, come è stato, desta subito una curiosità al limite del sospetto. Nessuno ha molta voglia di parlare di vicende per lo più dolorose, forse nel timore che causino altro dolore, o che svelino troppo i meccanismi di controllo sociale ed economico che le hanno rese possibili. Dopo circa un’ora passata in casa di Mercy Angela Mary, lontano da sguardi indiscreti, si sono cominciate a sentire ripetutamente delle moto transitare vicino a casa. Il messaggio era chiaro: dovevamo finire in fretta e andare via”.
Il cambiamento non può essere graduale
Dopo aver vissuto quest’esperienza intensa ma arricchente, Brasile e Ka’ Hue Cattaneo non hanno più alcun dubbio nell’affermare che “questo è il tempo dell’urgenza e dell’agire“, nelle parole del primo. “Nel sentire le storie raccontate in Fashion victims si abbandona l’illusione della possibilità di un cambiamento graduale dell’industria – come proposto da più parti, ma con risultati spesso evanescenti – per capire che è invece necessario un cambiamento radicale e dell’intero sistema”.
“Per questo crediamo che il coinvolgimento dei consumatori sia di vitale importanza. I consumatori, che sono anche cittadini, possono esercitare il proprio potere con il portafogli e con il voto, con uno stile di vita più consapevole. Il loro coinvolgimento, tuttavia, non deve spostare l’onere del cambiamento e della responsabilità, che ricade in pieno sulle industrie che operano secondo un modello di sfruttamento sfrenato delle risorse, dove le risorse sono anche le ragazze intervistate e milioni di altre lavoratrici e lavoratori in tutto il mondo”.
Foto in evidenza: Ragazza adolescente in una fabbrica tessile © Alessandro Brasile
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