Non è un caso che questa mostra inauguri proprio l’8 marzo, la festa della donna: Fear of beauty celebra le donne afgane, tutte, non solo le 5 raccontate grazie a quest’evento che hanno scelto la fotografia come professione, ma qualunque donna viva in Afghanistan. A Casa Emergency a Milano un piccolo spaccato di questo paese attraverso lo sguardo femminile e gli scatti di 5 professioniste che sono riuscite a fare ciò che desideravano ma ora sono state costrette a farlo lontano dalla propria terra. Colori, paesaggi dalla bellezza struggente, vita di tutti i giorni o sconvolta da guerre e invasioni. Una bella occasione per capire meglio un popolo sfaccettato non omologabile in un unico racconto di cui Emergency ha una buona conoscenza grazie al suo impegno, sanitario volto non a curare i cittadini afgani, ma anche sociale, dando lavoro e formando la popolazione, anche femminile. Ne parliamo con Manuela Valenti, medico e responsabile della divisione pediatrica di Emergency che più volte è stata in Afghanistan.
Fear of beauty: Emergency e Associazione donne fotografe per dar luce alle donne afgane
Anche la genesi di quest’esposizione è donna, ce lo racconta Isabella Balena, – fotografa d’esperienza che da anni ben racconta in immagini il mondo con uno sguardo attento ai temi sociali e umanitari – membro dell’Associazione donne fotografe che concretamente ha dato vita a Fear of beauty : “Tutto è nato da un’idea di Carla Pessina, medico rianimatore di Emergency con una vasta esperienza in Afghanistan che poi ci ha coinvolte per progettare l’esposizione. Non è stato facile trovare e contattare delle donne fotografe afgane che potessero partecipare a questo progetto. Le cinque che oggi sono in mostra a Casa Emergency rappresentano diverse anime, stili e modi di vivere l’essere donna in questo paese. Mariam Alimi, Roya Heydari, Fatimah Hossaini, Zahara Khodadadi e Najiba Noori fotografano il loro mondo in modo personale, ma in comune hanno tutte l’essere artiste che hanno lasciato il loro paese per poter continuare a inseguire la propria passione e arte”.
Le foto scelte che vedrete a Casa Emergency vogliono però non solo ricordare al pubblico quale sia la difficile situazione della donna in Afghanistan, ma anche restituire un ritratto di possibile anche se rara normalità dove l’essere donna non ha comunque impedito di lavorare, esprimersi artisticamente o fare cose banali come andare in bicicletta. Non possiamo però scordare i dati: secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), nella prima metà del 2021 le donne uccise o ferite dal conflitto hanno rappresentato il 14 per cento delle vittime civili della guerra (727 donne in totale, di cui 219 uccise), e in generale 9 donne su 10 durante la loro vita hanno subito una qualche forma di abuso e violenza. Con il paese nel pieno di una crisi economica e umanitaria e l’aggiunta della pandemia da covid-19 ad aggravare la situazione, donne e bambini subiscono le conseguenze più tragiche. I dati messi a disposizione dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (Ocha), infatti, mostrano che a giugno 2021 quasi la metà della popolazione – circa 18,4 milioni di persone – necessitava di assistenza umanitaria e di protezione, e in particolar modo donne, bambini e persone con disabilità.
L’impegno di Emergency in Afghanistan: una testimonianza
Per inquadrare la condizione della donna in questo paese, abbiamo scambiato qualche battuta con Manuela Valenti che lavora per Emergency da 12 anni e ha alle spalle diverse “missioni” nei centri afgani: “La mia prima esperienza risale al 2010 ed è stata proprio in Afghanistan per 6 mesi”.
Manuela Valenti, ci aiuti a capire quale era la situazione nel 2010 in Afghanistan. Era già tutto molto complicato. Tutti mi chiedono cosa sia cambiato ora con il ritiro degli americani ma in realtà la situazione era precaria anche allora. Parliamo di un paese senza infrastrutture, quasi nessun servizio alla popolazione, con combattimenti attivi continui, attentati ovunque. Dunque le conseguenze dirette sono facili da immaginare: morti, feriti come in ogni paese in guerra, la maggior parte dei quali civili, e un terzo bambini. E non bambini soldato perché in Afghanistan non ci sono, ma colpiti durante le attività quotidiane come andare a scuola o andare a prendere l’acqua al pozzo.
Come e dove opera Emergency nel paese? Emergency ha 3 ospedali in Afghanistan: in 2 ospedali si fa chirurgia di guerra, a Kabul, e nella zona sud del paese a Lashkar-gah; nella valle del Panjshir invece nel villaggio di Anabah è stato aperto nel 2003 un centro maternità, una delle classiche scelte folli di Emergency che però ha pagato enormemente. Una svolta per la popolazione della valle. Qui è stato svolto anche una sorta di questionario di gradimento tra le donne pazienti e quelle che lavorano nel centro – perché uno degli scopi di Emergency è quello di dare lavoro alla popolazione locale, specie femminile – e i risultati sono stati incredibilmente positivi. Qualcuno ha definito l’operazione una rivoluzione silenziosa. Infatti di solito le donne partoriscono in casa, sia per la geografia del paese, per lo più montuoso, fatto di piccole comunità rurali difficili da raggiungere, che per la situazione di guerra sempre in corso. La mortalità materna qui è altissima, ora però siamo arrivati a contare 700 parti al mese e ciò significa garantire sicurezza a queste donne e ai loro figli.
Siamo liete di annunciare la mostra FEAR OF BEAUTY realizzata in collaborazione con EMERGENCY in cui 5 fotografe afgane…
Qual è stato il suo rapporto con le donne afgane? Devo dire che c’era più curiosità pa darte loro nei miei confronti che il contrario: in Afghanistan il numero delle donne medico è molto basso. Se una famiglia non è molto ricca, qui si tende a far studiare solo il figlio maschio. Le sparute donne medico afgane però sono tutte o quasi ginecologhe.
Ora cos’è cambiato concretamente per voi di Emergency con il ritiro americano? La conseguenza più evidente è che non arrivano più feriti di guerra. Non si sparano e non si ammazzano più come prima. Ci sono però ancora i feriti da scoppi di mine. Gli afgani sono stanchi e si sentono presi in giro da più parti, specie dagli internazionali. Per loro è stata un’occupazione che non ha portato alcun beneficio: nessun servizio o quasi. C’è stato qualche miglioramento in merito ai diritti, ma non su tutto il territorio, solo a macchia di leopardo, il paese è complesso e diverso in ogni sua zona. Vivere a Kabul è molto diverso da vivere in una comunità di montagna. Tornando alle donne, in alcuni territori, nessuna ha mai tolto il burka. Solo chi vive in città ha veramente fatto esperienza di un prima e un dopo l’arrivo americano.
L’errore fatto più spesso dagli occidentali è quello di cercare di semplificare e spiegare un paese che invece ha in sè diverse etnie e dunque culture: lo si vede bene anche in questa mostra dove i visi ritratti hanno caratteri somatici ben distinti. I confini del paese sono stati decisi da altri, creando problematiche enormi. In molti hanno persino visto il ritorno dei talebani come un ripristino dell’ordine. E non è strano. Quel che è certo è che gli aiuti internazionali, con la dipartita americana, sono spariti e la gente muore di fame. L’Afghanistan produce solo oppio. Il numero di profughi interni è sempre in crescita: tutti si spostano verso le città e la crisi umanitaria è evidente.
Ci sono nuovi progetti di Emergency in programma in Afghanistan? Oltre i 3 ospedali e i centri di primo soccorso nei vari villaggi, continua l’attività di formazione dei medici locali che in Afghanistan è particolarmente sviluppata. I medici afgani possono anche svolgere da noi la scuola di specializzazione in pediatria, ginecologia e chirurgia. Siamo riconosciuti come polo universitario.
Cosiglierebbe ai medici italiani di fare un’esperienza come la sua? Non solo lo consiglio ma credo dovrebbe essere obbligatorio per ogni medico. Gli specializzandi italiani possono fare un’esperienza in uno dei centri di Emergency.
Sarà possibile visitare la mostra dall’8 al 20 marzo 2022 nella sala polifunzionale di Casa Emergency, via Santa Croce 19 a Milano. L’esposizione, ad accesso libero, sarà aperta dal lunedì al venerdì dalle ore 12:00 alle ore 19:00 e sabato e domenica dalle ore 10:00 alle ore 19:00.
Numerose ong hanno sottolineato la situazione drammatica della popolazione palestinese a Gaza, chiedendo a Israele di rispettare il diritto umanitario.
Vida Diba, mente di Radical voice, ci parla della genesi della mostra che, grazie all’arte, racconta cosa significhi davvero la libertà. Ed esserne prive.
L’agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva (Unfpa) e il gruppo Prada hanno lanciato un programma di formazione per le donne africane.
Il Comune di Milano lo faceva già ma smise, attendendo una legge nazionale che ancora non c’è. Non si può più rimandare: si riparte per garantire diritti.