Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Slow fashion contro i cambiamenti climatici, ecco come Fibershed coltiva i vestiti
Il mondo della moda rallenta e diventa sostenibile con Fibershed, la no profit che rivoluziona il modo in cui si producono i capi di abbigliamento.
Era il 2010 quando Rebecca Burgess ha dato vita a un progetto che presto sarebbe diventato un movimento: Fibershed, un sistema di coltivazione su base regionale sostenibile e rigenerativo pensato per trasformare la filiera della produzione tessile. I vestiti vengono prodotti localmente con le fibre naturali coltivate anch’esse in zona, che possono poi essere reimpiegate al termine del ciclo vitale del prodotto.
L’impatto ambientale della moda
Per capire meglio l’impatto – positivo, beninteso – che questo modello di ha in termini ambientali, sono sufficienti alcuni dati: l’industria che comunemente chiamiamo fast fashion, in cui la produzione avviene più velocemente e al minor costo possibile, crea più emissioni di anidride carbonica dei voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. La moda “veloce”, quella usa e getta, genera 37 tonnellate di anidride carbonica per ogni tonnellata di abiti prodotti in serie, ed è così la seconda industria più inquinante al mondo. In altre parole, il ritmo della produzione e del consumo mondiali è così accelerato che un camion pieno di vestiti arriva in discarica o all’inceneritore ogni secondo.
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Fibershed, la rivincita dello slow fashion
Fibershed è una sorta di ritorno allo slow fashion, che non solo riduce notevolmente le emissioni di CO2 ma che, grazie al suo modello decentralizzato, ha anche una serie di benefici in termini economici e sociali. Perché quello che era nato come un esperimento, come un semplice – ma nobile – tentativo di ridurre l’impatto ambientale a livello individuale, è ben presto diventato un fenomeno internazionale. Così da Marin County, nel nord della California, negli Stati Uniti, il modello ideato da Burgess si è espanso anche al di fuori dei confini nazionali: prima dal Texas a New York, dal Connecticut al Nevada, per arrivare fino in Canada, Australia e Regno Unito. In ciascuno di questi luoghi si sono formate tante comunità di agricoltori, allevatori, proprietari terrieri, designer, ecologisti, sarti, maglieristi, esperti in tinture naturali, ma anche filatori e più in generale tutti gli operatori di una filiera tessile che si trovano in un’area geografica ristretta e ben definita e collaborano tra loro nella produzione di capi di abbigliamento.
L’idea originaria della fondatrice era quella di creare un guardaroba in cui le tinture, le fibre e la manodopera provenissero da una zona entro 275 chilometri dalla sede del progetto. Mai si sarebbe immaginata che il fenomeno potesse assumere questa portata. “Mi ricordo che ero seduta in aeroporto – racconta Burgess – e mentre aspettavo il mio volo guardavo la Cnn che trasmetteva un servizio in cui si vedevano le nostre truppe schierate in Afghanistan. E mi sono resa conto che era, ancora una volta, una situazione in cui al petrolio veniva data più importanza rispetto alla vita delle persone. Ma soprattutto ho iniziato a pensare che i combustibili fossili sono presenti in tutto ciò da cui dipendiamo: in quel momento avevo addosso un pile e dei vestiti in acrilico, per esempio. Così guardavo la tv e mi sentivo estremamente responsabile e colpevole per quella situazione. È lì che ho iniziato a pensare di mappare il territorio in cui ero cresciuta per creare un guardaroba in cui fibre, tinture e manodopera si trovassero entro un raggio di 275 chilometri da casa mia”.
Want to shift the #carbonfootprint of your clothing? We need to look, and act, holistically to understand the impact of choices. We invite you to begin with the Fibershed Clothing Guide + tips from our community https://t.co/iCakmjP3Ns pic.twitter.com/PrSjbdTMTH
— Fibershed (@Fibershed) 3 giugno 2019
Un modello di moda sostenibile da seguire e replicare
Da quel momento di passi avanti ne sono stati fatti parecchi. L’idea non solo ha funzionato, è anche piaciuta ed è stata copiata e riprodotta in altre aree. Sono nati progetti, uno fra tutti è Grow your jeans, grazie al quale alcuni agricoltori, tessitori ed esperti nella lavorazione dei tessuti hanno prodotto localmente 18 paia di jeans che sono state tutte vendute ancora prima di essere realizzate. Marchi di abbigliamento come The North Face e Eileen Fisher hanno manifestato sempre più interesse verso questo modello di produzione. Tanto che Fibershed sta pianificando di investire 50 milioni di dollari nella creazione di uno stabilimento in California a disposizione delle case di moda, che lì possono fare di tutto: dalla tosatura della lana a lavori di finitura. A tal proposito, secondo uno studio americano, i consumatori sono disposti a pagare il triplo per un indumento prodotto localmente anziché in Cina.
“Quello che vogliamo fare – continua Burgess – è creare un modello di uguaglianza sociale nelle economie regionali e soprattutto fare capire alla gente quanto realmente costano i vestiti. Dobbiamo rallentare, anche nell’utilizzo dei capi di abbigliamento, ma soprattutto ci dev’essere trasparenza e consapevolezza rispetto a quello che indossiamo”. Si parte dunque da qui, dalla consapevolezza. E se anche ci sembrerà di essere una goccia d’acqua in un oceano, è bene tenere a mente che spesso è il singolo individuo a fare la differenza. Perché, e Greta Thunberg ce lo insegna, ricordiamoci che non abbiamo un pianeta B.
Immagine in evidenza: Dal 2010 a oggi sono nate tante comunità di agricoltori, allevatori e operatori della filiera tessile che hanno adottato il metodo di produzione ideato da Rebecca Burgess all’interno del progetto di moda sostenibile Fibershed © Paige Green
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