Filippine. La guerra alla droga di Duterte sotto indagine per crimini contro l’umanità

Duterte ha permesso migliaia di omicidi extragiudiziali dal 2016. Ora la Corte penale internazionale vuole procedere contro il presidente delle Filippine.

La procuratrice della Corte penale internazionale (Cpi), Fatou Bensouda, ha detto di voler avviare un’indagine per crimini contro l’umanità sulla guerra alla droga messa in atto nelle Filippine dal presidente Rodrigo Duterte. Dal 2016, anno del suo insediamento, migliaia di spacciatori e consumatori sono stati uccisi dalle forze di polizia: il governo parla di circa 6mila morti, ma secondo le organizzazioni per i diritti umani locali il numero reale dei decessi extragiudiziali è almeno il triplo. Duterte ha affermato di non voler collaborare con la Corte, da cui ha ritirato il paese nel 2019, ma difficilmente riuscirà a sottrarsi al suo giudizio.

Quattro anni di guerra alla droga

Quando nel 2016 ha preso il potere, Rodrigo Duterte ha applicato su scala nazionale quello che da sindaco faceva nel centro urbano di Davao City. Qui operavano i cosiddetti squadroni della morte, reparti speciali di polizia sguinzagliati con i loro metodi violenti per tagliare le gambe alla criminalità e al narcotraffico locale attraverso uccisioni extragiudiziali. Ottenuta la presidenza del paese, Duterte ha amplificato questo modus operandi, dando il via a una guerra alla droga che in breve tempo si è trasformata in una strage infinita.

Le strade delle città filippine si sono riempite di cadaveri, in quelli che hanno assunto le sembianze di veri e propri rastrellamenti. Duterte ha concesso alla polizia la liceità di sparare ogni qual volta l’indiziato avesse opposto resistenza, ma i numeri degli omicidi extragiudiziali che in questi anni hanno riempito i bollettini fanno pensare che quello della reazione sia solo un alibi creato ad hoc per dare licenza di uccidere. Poche settimane dopo il suo insediamento nel maggio del 2016, c’è stata una notte a Manila in cui ben 22 persone sono state uccise dalle forze di polizia a causa della loro attività legate al narcotraffico. Oggi non è chiaro a quanto ammonti il bollettino di questi primi quattro anni di guerra alla droga: i numeri rilasciati dal governo parlano di 6mila morti solo nei primi sei mesi di presidenza, un dato esposto come un trofeo in quanto simbolo dell’eradicamento della criminalità. Altre fonti aggiornate al 2021 ne contano oltre 20mila, tra cui diversi minori.

“Io come Hitler, sterminerò i tossicodipendenti”, aveva detto Duterte al momento dell’insediamento, in un paese dove oltre un milione di cittadini abusava di droghe. Piuttosto che occuparsi del recupero di queste persone, il presidente ha scelto la via della criminalizzazione, trattando venditori e consumatori allo stesso modo e instaurando di fatto una pena di morte senza processo per chi fosse anche solo sospettato di avere qualcosa a che fare con le sostanze. Non è un caso che proprio Duterte sia favorevole alla reintroduzione della pena capitale, abrogata nelle Filippine nel 2006.

L’intervento della Corte penale internazionale

Nel 2018 la Corte penale internazionale ha avviato un esame preliminare sui metodi della guerra alla droga di Duterte. I risultati sottolineano che “ci sono basi evidenti per dire che gli omicidi possano aver costituito un crimine contro l’umanità”. Alla luce di questo, l’attuale procuratrice della Corte, Fatou Bensouda, ha ora chiesto al tribunale dell’Aia di aprire un’indagine completa a riguardo, una richiesta dunque di autorizzazione giudiziaria a procedere. “Le informazioni ottenute dall’accusa suggeriscono che gli attori statali, principalmente i membri delle forze di sicurezza filippine, hanno ucciso migliaia di sospetti tossicodipendenti e altri civili durante le operazioni ufficiali delle forze dell’ordine”, ha sottolineato Bensouda in un comunicato nelle scorse ore. Oltre a questo, si parla di casi di tortura e di trattamenti inumani e degradanti.

Una presa di posizione che non è piaciuta al presidente filippino, che se l’è presa con la procuratrice, già apostrofata come “quella donna nera”, e ha detto che non ha alcuna intenzione di collaborare con il tribunale per i crimini internazionali. Il suo portavoce Harry Roque ha parlato di un attacco di natura politica, sottolineando che la Corte dell’Aia non ha giurisdizione sul paese. In effetti le Filippine si sono ritirate dal tribunale nel 2019, ma il suo statuto non considera questo avvicendamento retroattivo. La giurisdizione dunque rimane sul paese per gli eventuali crimini commessi nel periodo in cui esso ne faceva parte e in effetti le indagini preliminari sulle Filippine che hanno portato alla richiesta di indagine ufficiale sono riferite al periodo 2016-2019. I giudici ora hanno 120 giorni per dare autorizzazione alla richiesta di indagine ufficiale della procuratrice Fatou Bensouda.

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