Per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici servono ingenti risorse economiche: è per questo che la finanza climatica ha un ruolo fondamentale.
Decarbonizzare l’economia globale, rendere il territorio resiliente di fronte agli sconvolgimenti del clima, tutelare (e risarcire) i più deboli: sono tutte priorità assolute, da cui dipende il nostro futuro sull’unico pianeta che abbiamo. Per far sì che non restino soltanto sulla carta, servono ingenti risorse economiche. È per questo che la finanza climatica ha – e avrà – un peso fondamentale.
Quando si parla di finanza climatica o finanza per il clima (climate finance, in inglese) ci si riferisce in generale alle risorse e agli strumenti finanziari che vengono investiti nella lotta contro i cambiamenti climatici. Quest’ultima si articola su tre pilastri. Da un lato c’è la mitigazione, cioè la riduzione delle emissioni di gas serra climalteranti, che richiede in sostanza una radicale trasformazione del sistema economico globale. Dall’altro lato c’è l’adattamento, l’insieme delle misure volte – appunto – ad adattare il territorio ai cambiamenti del clima per limitare i danni a persone e cose. Infine c’è il loss and damage, cioè il risarcimento delle perdite e dei danni subìti dai paesi che sono più vulnerabili ma, al tempo stesso, meno responsabili del riscaldamento globale. Queste tre direttrici sono molto diverse tra loro, ma hanno una cosa in comune: richiedono risorse finanziarie immense.
Quante risorse servono e quante ne sono state stanziate
Quanto immense? Fare un calcolo preciso è estremamente complesso, ma alcuni studi sono giunti a stime attendibili. La Climate policy initiative per esempio sostiene che nel biennio 2021-2022 i flussi finanziari medi annui abbiano raggiunto i 1.300 miliardi di dollari, una cifra quasi raddoppiata rispetto ai livelli del 2019-2020. A fare la parte del leone è la finanza per la mitigazione, che si attesta a quota 1.150 miliardi di dollari annui, cioè 439 in più rispetto al 2019-2020. Per contro, l’adattamento si ferma a 63 miliardi; altri 51 miliardi sono riconducibili a entrambi gli obiettivi.
È sempre la Climate policy initiative a sottolineare quanto queste cifre, ancorché in aumento, restino largamente insufficienti. Nello scenario medio, il fabbisogno annuo di finanza climatica aumenterà dagli 8.100 ai 9mila miliardi di dollari entro il 2030. A quel punto, sfonderà il tetto dei 10mila miliardi fino al 2050. I flussi finanziari annui, di conseguenza, dovranno almeno quintuplicare.
L’investimento dunque è considerevole, ma comunque vantaggioso. Nell’ipotesi – alquanto ottimista – in cui l’aumento della temperatura media globale resti entro gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, tra il 2025 e il 2050 serviranno in tutto 266mila miliardi di dollari per la finanza climatica. Un volume di denaro gigantesco, ma comunque di molto inferiore rispetto ai 1.062 trilioni di perdite economiche che comunque si registreranno per via del clima (un trilione sono mille miliardi). Se invece si continuerà con il business as usual, i danni cumulativi totalizzeranno i 2.328 trilioni, sempre tra il 2025 e il 2050.
I fondi multilaterali per la finanza climatica
La convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) ha istituito nel corso degli anni alcuni fondi multilaterali, volti a fornire le risorse necessarie ai paesi in via di sviluppo. Vediamone alcuni.
Fondo verde per il clima
Uno dei primi e più importanti strumenti di finanza climatica è il Fondo verde per il clima (Green climate fund), istituito nel 2010. Tuttora è il fondo multilaterale per il clima più grande del mondo, pur avendo mancato i propri obiettivi dichiarati. Nel corso della Cop15 di Copenaghen, infatti, i paesi industrializzati si erano impegnati a mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020 a sostegno delle economie in via di sviluppo. Tale scadenza è stata però successivamente prorogata al 2025. Stando agli ultimi dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), nel 2021 il totale ha raggiunto gli 89,6 miliardi.
La Cop29 di Baku, in Azerbaigian, sarà il luogo dove definire il nuovo obiettivo collettivo per la finanza climatica (new collective quantified goal), valido dal 2025 in poi.
Fondo per le perdite e i danni (loss and damage)
Dopo un dibattito trascinatosi per tre decenni, nelle ultime ore della Cop27 di Sharm-el-Sheikh le parti si sono accordate per la creazione di un fondo per il loss and damage, poi formalizzato nel primo giorno della successiva Cop28 di Dubai. Si tratta di un trasferimento di risorse finanziarie dai paesi industrializzati (responsabili della gran parte delle emissioni di gas serra) verso i paesi in via di sviluppo, particolarmente vulnerabili all’impatto della crisi climatica pur avendo contribuito soltanto in minima parte a causarla.
Per i primi quattro anni è la Banca mondiale a occuparsi del funzionamento del fondo: una scelta invisa ai paesi in via di sviluppo, che temono che a tenere le redini siano i paesi industrializzati, magari imponendo condizioni molto dure per l’accesso alle risorse. Per garantire una governance equamente rappresentativa, il board è composto da 26 membri, di cui 12 designati dalle economie avanzate.
La contribuzione al fondo è su base volontaria: al termine della Cop28, le promesse si attestano poco al di sotto dei 700 milioni di dollari. Alcuni studi sostengono che il reale fabbisogno si attesti su tutt’altro ordine di grandezza: si parla infatti di 400 miliardi (e non milioni) di dollari all’anno.
Fondo per l’adattamento (Adaptation fund)
Come suggerisce il nome, il Fondo per l’adattamento (Adaptation fund) finanzia progetti di adattamento nei paesi in via di sviluppo che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto e sono particolarmente vulnerabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici. È finanziato in parte dai governi (incluso quello italiano), in parte dai donatori privati e in parte dai proventi dei certificati di riduzione delle emissioni di CO2. A partire dal 2010 il fondo ha stanziato più di un miliardo di dollari per progetti di cui hanno beneficiato 43 milioni di persone nel mondo. Durante la prima settimana della Cop28 i donatori hanno promesso altri 191,2 milioni, una cifra inferiore all’obiettivo di mobilitare 300 milioni di dollari nel 2023. Il valore dei progetti non ancora finanziati, infatti, ha raggiunto i 425 milioni di dollari.
Global environment facility
Lanciata nel 1991, la Global environment facility (Gef) è una famiglia di fondi che si focalizzano sui cambiamenti climatici, sulla perdita di biodiversità, sull’inquinamento e le pressioni sulla salute del territorio e degli oceani. Nell’arco di tre decenni ha stanziato più di 23 miliardi di dollari e ne ha mobilitati 129 miliardi in co-finanziamenti per oltre 5mila progetti nazionali e regionali, soprattutto per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare le proprie priorità ambientali e allinearsi alle convenzioni ambientali internazionali.
Per fare qualche esempio più nel dettaglio, il 27 per cento dei fondi distribuiti tra il 2018 e il 2022 è andato a progetti per le foreste, raggiungendo un totale di 3,7 miliardi in tre decenni; sempre dalla sua istituzione, il fondo ha stanziato altri 1,2 miliardi per la conservazione delle risorse marine, a cui si sono aggiunti altri 500 milioni di co-finanziamento da altre fonti.
🌟 2023: A year of resilience, optimism, and groundbreaking strides in environmental action. Check out the timeline below to witness the journey of the GEF partnership in shaping a better future for our planet. 💚 https://t.co/vq5DEfjcKVpic.twitter.com/3qyBvKHwsl
Il 4 dicembre, alla Cop28 di Dubai, era la giornata dedicata alla finanza climatica. Un’occasione per mettere nero su bianco gli impegni assunti da vari soggetti nei primi giorni di negoziati, per un totale di 57 miliardi di dollari così ripartiti:
30 miliardi come dotazione iniziale del fondo di investimento Altérra, lanciato dagli Emirati Arabi Uniti;
200 milioni di dollari promessi dagli Emirati Arabi Uniti per i diritti speciali di prelievo;
140 milioni di dollari promessi dagli Emirati Arabi Uniti per la sicurezza idrica;
circa 700 milioni di dollari per il loss and damage;
3,5 miliardi per il Fondo verde per il clima;
2,7 miliardi per la salute;
2,6 miliardi per la trasformazione dei sistemi alimentari;
2,6 miliardi per la protezione della natura;
467 milioni di euro per l’azione per il clima in ambiente urbano;
1,2 miliardi per gli aiuti, la ripresa e la pace;
2,5 miliardi sono stati mobilitati per le energie rinnovabili;
1,2 miliardi per la riduzione delle emissioni di metano;
568 milioni per la produzione di energia pulita.
Altre forme innovative di finanziamento
I fondi multilaterali sono strumenti importanti per la finanza climatica, ma non sono gli unici. Nel tempo sono state ipotizzate o sperimentate varie forma di finanziamento innovative.
Superare la trappola del debito
Tra gli ostacoli principali che i paesi di sviluppo si trovano ad affrontare c’è la cosiddetta trappola del debito. A partire dal 2000 il debito pubblico globale (domestico ed estero) è quadruplicato, fino a raggiungere i 92mila miliardi di dollari. Per i paesi in via di sviluppo, in particolare, tra il 2010 e il 2021 il debito pubblico totale è passato dal 35 al 60 per cento del pil. Il debito estero, cioè quello che i governi devono a creditori stranieri, nello stesso periodo è passato dal 19 al 29 per cento del pil.
Cosa vuol dire tutto questo? Che le loro economie sono schiacciate dal peso del debito e, per finanziarsi, devono pagare tassi di interesse molto più elevati rispetto a quelli richiesti alle economie avanzate. Di conseguenza, faticano a fare gli investimenti necessari per decarbonizzare la propria economia e diventare più resilienti di fronte alla crisi climatica. Una trappola, appunto.
Da tempo ci sono movimenti che chiedono a gran voce di cancellare il debito. Un’opzione radicale che sbloccherebbe risorse cruciali per la transizione. Per ora, sono stati sperimentati meccanismi come i debt for climate swap: il creditore “rinuncia” a parte del debito che gli è dovuto da uno stato estero, a patto che la somma equivalente (di solito convertita in obbligazione) venga usata per progetti legati al clima. Declinato sulla tutela della biodiversità, tale meccanismo si chiama debt for nature swap.
Un altro meccanismo, per cui vari governi e istituzioni finanziarie internazionali si sono impegnati alla Cop28 di Dubai, è quello delle climate-resilient debt clauses: in sostanza, quando un paese è colpito da una catastrofe climatica, il creditore sospende temporaneamente i servizi del debito per concedergli un po’ di respiro.
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Un’altra possibilità sta nell’imporre una tassa sulle risorse energetiche che emettono CO2, la cosiddetta carbon tax. La stessa direttrice del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, ha dichiarato che basterebbe una carbon tax, unita alla cancellazione dei sussidi per le fonti fossili, per trovare i fondi necessari a rispondere alla crisi climatica.
Green bond
Tra i più accreditati strumenti della finanza sostenibile ci sono i green bond, obbligazioni i cui proventi devono essere investiti per progetti di carattere ambientale, per esempio l’efficienza energetica o la produzione di energia da fonti rinnovabili. Sperimentati per la prima volta nel 2006, i green bond hanno vissuto una crescita straordinaria: stando alle stime preliminari di Climate bonds initiative, le emissioni nel 2023 potrebbero avvicinarsi al tetto dei 600 miliardi di dollari. Due, però, i punti deboli ancora da affrontare. Innanzitutto, queste cifre, per quanto considerevoli, sono ancora minoritarie: nel 2020 le obbligazioni verdi rappresentavano appena il 3-3,5 per cento delle emissioni totali di obbligazioni. C’è inoltre un certo margine di interpretazione su quali progetti possano essere considerati “ambientali”. Per questo, l’Unione europea sta lavorando su uno standard univoco; sarebbe il primo al mondo.
We propose a new European Green Bond Standard to:
🟢 help raise funds on capital markets to finance ambitious green investments 🟢 clearly recognise the bonds that are truly green 🟢 protect investors from greenwashing
Una grossa fetta di responsabilità spetta anche alla finanza privata, in grado di mobilitare capitali ben superiori rispetto a quelli dei bilanci pubblici. Capitali che, a tutt’oggi, spesso vengono indirizzati verso attività distruttive per il clima. Lo dimostra il fatto che le sessanta maggiori banche mondiali, dalla firma dell’Accordo di Parigi a fine 2022, abbiano erogato 5.500 miliardi di dollari all’industria dei combustibili fossili. Diverse iniziative promettono un cambio di rotta.
Glasgow financial alliance for net zero
Alla Cop26 di Glasgow un gruppo di banche, compagnie di assicurazione e asset manager ne ha preso atto dando vita alla Glasgow financial alliance for net zero (Gfanz), una coalizione globale promossa dalle Nazioni Unite che si impegna ad accelerare la decarbonizzazione dell’economia. Un’iniziativa molto partecipata: oggi conta infatti 675 istituzioni finanziarie, riunite a loro volta in otto alleanze settoriali. Per citarne una, l’alleanza delle banche (Net-zero banking alliance) ne comprende 141, con asset complessivi pari a 74mila miliardi di dollari, cioè il 41 per cento del totale degli asset bancari a livello globale. Al tempo stesso, però, le ong da tempo tengono d’occhio l’alleanza di Glasgow, svelandone alcuni macroscopici controsensi. Uno fra tutti: anche dopo avere iniziato a farne parte, decine di banche e società finanziarie hanno continuato a sostenere società intente a costruire centrali a carbone, oleodotti, giacimenti di gas e petrolio e altre infrastrutture fossili. Tant’è che alcune banche etiche, come la tedesca Gls, hanno preferito sfilarsi.
One planet summit
C’è il presidente francese Emmanuel Macron, insieme alle Nazioni Unite e alla Banca mondiale, dietro al One planet summit, l’unico vertice internazionale specificamente dedicato alla finanza climatica al di fuori delle Cop. Il primo è stato a Parigi il 12 dicembre 2017, due anni esatti dopo la storica conclusione della Cop21. Da allora ce ne sono stati altri sei, anche con un approccio tematico: i due summit del 2023, per esempio, sono stati dedicati rispettivamente alle foreste tropicali e a ghiacciai e poli. Tra i risultati raggiunti finora c’è, per esempio, la nascita di cinque partnership pubblico-private che si pongono il traguardo di raccogliere 2 miliardi di dollari per la transizione energetica nei paesi in via di sviluppo (finora ne sono stati resi disponibili 650 milioni).
Climate action 100+
Gioco forza, banche, asset manager, compagnie di assicurazione e fondi pensione hanno un certo potere contrattuale sulle aziende. E possono esercitarlo per spingerle verso la decarbonizzazione. Questo è il senso della coalizione Climate action 100+, così chiamata perché si focalizza sulle imprese più inquinanti del mondo (ora sono 170), valutandole sulla base di una serie di parametri e pubblicando annualmente un report con i loro progressi. Ne fanno parte circa settecento investitori.
Iniziative filantropiche
Infine, si stanno moltiplicando le iniziative filantropiche, spesso volute da nomi di primo piano dell’imprenditoria. È il caso del Bezos earth fund, lanciato dal fondatore di Amazon Jess Bezos, si impegna a erogare 10 miliardi di dollari entro il 2030; oppure di Bloomberg philantropies, del magnate americano Michael Bloomberg.
La Cop29 si svolge in Azerbaigian, un paese fortemente dipendente dall’export di gas e petrolio, sempre più corteggiato dall’Europa che vuole sostituire le forniture russe.
Non era mai accaduto che la temperatura media globale in un intero anno solare fosse di oltre 1,5 gradi centigradi superiore ai livelli pre-industriali.
Secondo i dati preliminari il 2023 è stato un anno anomalo, in cui l’assorbimento netto della CO2 da parte degli ecosistemi terrestri si è quasi azzerato.