La finanza ha la fondamentale responsabilità di traghettare i capitali verso la transizione energetica. Se ne è discusso al Salone del Risparmio 2022.
Le tre cose che servono per finanziare la lotta ai cambiamenti climatici
Trovare i soldi per la lotta ai cambiamenti climatici: è l’obiettivo del One Planet Summit e ci stanno lavorando governi, aziende, filantropi. Secondo Nature Conservancy, sono tre i pezzi da mettere sulla scacchiera.
Nonostante i ritardi, le difficoltà e lo scetticismo, la lotta ai cambiamenti climatici è ormai in cima alla lista delle priorità di qualsiasi governo, azienda e cittadino che abbia a cuore il futuro. A questo punto, però, sorge una domanda che può sembrare fin troppo banale: chi la finanzia? È stato questo il tema del One Planet Summit che si è tenuto il 12 dicembre, esattamente a due anni di distanza dalla firma dell’Accordo di Parigi, con un obiettivo molto concreto: arrivare a fine giornata avendo in mano degli strumenti finanziari concreti da usare a favore del clima.
Secondo una lunga disamina pubblicata su Forbes dal direttore generale di Nature Conservancy Mark Tercek, le azioni da intraprendere sono innumerevoli ma, per farle funzionare, sono tre i pezzi fondamentali da mettere sulla scacchiera: politiche pubbliche, strumenti finanziari, dati e rendicontazione. Proviamo a ripercorrerli uno per uno, per capire a che punto siamo.
Quanto costa la lotta ai cambiamenti climatici
Iniziamo con le cifre. Quando nel 2015 le Nazioni Unite hanno sancito gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sdgs) per il 2030, sapevano di lanciare una sfida. Una sfida al nostro modello di sviluppo, ma anche una sfida economica nel vero senso della parola. È quasi impossibile capire quanti soldi servano per la lotta ai cambiamenti climatici, alla povertà, alla fame e non solo. Chi ha provato a fare alcune stime è arrivato a cifre difficili addirittura da immaginare: l’Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) parla di 4.500 miliardi di dollari l’anno dal 2015 al 2030, New Climate Economy alza la cifra a 5-7 mila miliardi di dollari l’anno.
As 2017 comes to a close, we’re inspired by @nature_org’s 7 stories of what’s possible for our #planet when we all work together. https://t.co/Ngd2qE1SGl pic.twitter.com/CztmqHyPVn
— WRI Ross Center (@WRIRossCities) 6 dicembre 2017
Servono capitali privati, subito
Quel che è certo è che, ad oggi, questi soldi non ci sono. Le sovvenzioni governative si attestano sui 142 miliardi di dollari, la filantropia negli Usa muove circa 400 miliardi. È evidente come debbano necessariamente entrare in gioco fondi pensione, compagnie di assicurazione, fondi sovrani. Realtà che, si stima, gestiscono capitali privati pari a circa 90 mila miliardi di dollari. E che nelle proprie scelte d’investimento si stanno dimostrando sempre più attente ai cosiddetti temi Esg (ambientali, sociali e di governance) e alla possibilità di ottenere tanto un ritorno finanziario, quanto un impatto sociale e ambientale positivo.
È stata smentita coi fatti, insomma, la falsa credenza che vedeva la lotta ai cambiamenti climatici e la crescita economica in contrasto tra loro. Come ha dichiarato a chiare lettere al One Planet Summit il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, “il green business è good business” perché stanno nascendo “nuove imprese, nuovi mercati, ambienti più salubri. Più occupazione”. Ma si può fare per catalizzare questi flussi finanziari? È qui che entrano in gioco i tre elementi identificati da Tercek.
1. Le politiche pubbliche
Non si può pensare che gli investimenti privati trovino da soli la giusta direzione, se non vengono in qualche misura indirizzati. Questo compito spetta ai governi, che devono avere la forza di stabilire leggi e obiettivi coraggiosi. Pensiamo ad esempio al ruolo che hanno giocato gli incentivi nella diffusione delle energie pulite e nell’abbattimento dei loro costi. Oppure, sempre in tema di energia, pensiamo al potere dirompente che hanno (per citarne solo alcuni) la California e le Hawaii che annunciano di voler coprire il 100 per cento del fabbisogno energetico con fonti rinnovabili entro il 2045, mentre la nuova strategia energetica nazionale italiana (Sen) fissa l’obiettivo del 28 per cento entro il 2030. Dobbiamo ringraziare anche queste forti prese di posizione da parte degli Stati se, oggi come oggi, conviene di più investire in rinnovabili che in fossili. Per completare questa lista – continua Tercek – servirebbe anche una tassa sul carbone. Ma non c’è solo l’energia. La lotta ai cambiamenti climatici passa anche per il contrasto alla deforestazione (il Brasile è capofila, con il suo piano per riforestare l’Amazzonia), o ancora per la mobilità (la Cina ha imposto l’auto elettrica o ibrida a partire dal 2019).
2. Gli strumenti finanziari
Gli investimenti non arrivano, però, se non ci sono gli strumenti finanziari adatti. E molto spesso, fa notare Terceck, non c’è bisogno di clamorose novità, ma basta dare una sfumatura verde a ciò che già esiste. È il caso dei green bond, che stanno vivendo un successo al di là di qualsiasi aspettativa: nel 2017, conteggiando anche i cosiddetti unlabelled, si è arrivati a un valore di 895 miliardi di dollari.
2017 Green Bond Record! $100bn in global issuance reached during COP23 https://t.co/pjw2c9VCwe vía @ClimateBonds pic.twitter.com/M2Boluv1C5 — ecopost (@Ecopost_info) 26 novembre 2017
Esistono poi le green banks, banche che – come quelle tradizionali – possono essere statali, semistatali o private, con una particolarità: lavorano insieme al settore privato per sostenere progetti di green economy. La nuova frontiera per le istituzioni come la Banca Mondiale e il Green Climate Fund è la cosiddetta blended finance. Il suo scopo è quello di utilizzare i soldi degli aiuti internazionali, che spesso scarseggiano, come leva per ridurre i rischi e incentivare gli investimenti privati in progetti per la lotta ai cambiamenti climatici e, in generale, gli Sdgs. Tutto questo garantendo ritorni interessanti.
La settimana del One Planet Summit è stata ricchissima di annunci che fanno ben sperare: dalla coalizione di fondi sovrani che si è impegnata a rendere più “verdi” i propri portafogli, alla compagnia assicurativa Axa che ha promesso di disinvestire 3,6 miliardi di dollari dalle energie fossili, alla Banca Mondiale che dice “basta” ai progetti di esplorazione petrolifera ed estrazione di petrolio e gas.
Leggi anche: Tutti gli investimenti sostenibili promessi a Parigi per il clima
3. I dati e la rendicontazione
Se si vogliono sbloccare gli investimenti privati per la lotta ai cambiamenti climatici, però, bisogna dimostrare che questi investimenti funzionano. Bisogna dimostrare che sono vantaggiosi, tanto dal punto di vista ambientale e sociale quanto da un punto di vista puramente finanziario. È il grande tema della rendicontazione, che emerge a più riprese ogni volta che si affronta il tema della finanza sostenibile.
La rendicontazione ha due facce, una in positivo e una in negativo. Da un lato, bisogna trasformare in denaro i risultati raggiunti per il Pianeta: il calo delle emissioni di gas serra, il processo di riforestazione e così via. Dall’altro lato, bisogna riuscire a quantificare i rischi finanziari legati ai cambiamenti climatici, per farli entrare a pieno titolo nelle decisioni d’investimento di fondi, banche e assicurazioni.
Quest’equazione non è affatto semplice né immediata, ma per fortuna esistono le competenze e i modelli finanziari per risolverla. Servirà molto lavoro, ma è un lavoro indispensabile: anche nel business, la lotta ai cambiamenti climatici non deve nascere soltanto da un moto di sensibilità personale, ma deve essere riconosciuta da tutti come un fattore decisionale che non ha nulla in meno rispetto ai tradizionali fattori economici.
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