Il documentario Fiore mio di Paolo Cognetti ci porta nei luoghi sacri della montagna

Fiore Mio è un viaggio verso le sorgenti d’acqua, attraverso l’anima della montagna, viva e in trasformazione. Con le colonne sonore di Vasco Brondi.

Potrebbe sembrare poetico che il monte Rosa prenda il suo nome dalla tinta di colore che si riflette sulle sue cime all’alba e al tramonto, ma in realtà significa “montagna di ghiaccio”, da rouja che nel dialetto locale (il patois) significa proprio ghiaccio. Per chi sta ad altitudini più basse ghiaccio significa invece acqua. Questo elemento è il filo conduttore e la guida del nuovo documentario di Paolo Cognetti, Fiore Mio, interpretato e diretto da lui stesso ai piedi di questa montagna di ghiaccio, che per lo scrittore e regista è una seconda casa, raccontata da diverse prospettive nei suoi libri.

Il documentario Fiore Mio di Paolo Cognetti

L’acqua è sempre stata la “musica” nella baita di Cognetti a Estoul, in Val d’Ayas, e la sua mancanza assordante nell’estate siccitosa del 2022 lo ha portato a farsi numerose domande e a spingersi più in alto alla ricerca della sua fonte.

Altro che croci di vetta, sono le sorgenti i luoghi sacri.

“Ho letto che i tibetani quando un amico parte lasciano sul tavolo una tazza di tè, una preghiera per il suo ritorno. Ho cominciato a farlo anch’io”, racconta Cognetti nel brano a cui ha prestato la voce all’interno del disco dell’amico musicista Vasco Brondi, Ascoltare gli alberi, realizzato come colonna sonora del documentario. Un gesto che si vede all’interno del documentario e che trova la sua spiegazione in questo brano.

“Di mattina vado a camminare, seguo i corsi d’acqua, risalgo i torrenti fino a quando diventano sempre più sottili. Trovare la fonte che a volte è solo un rivolo sotto la roccia mi commuove come se fossimo in un deserto. In Tibet ho visto che le sorgenti sono protette da piccole costruzioni, quattro muretti a secco intorno al punto in cui l’acqua sgorga. Forse solo perché gli animali non la sporchino, ma poi lì le persone portano offerte, fiori, e diventano dei santuari. Dovremmo farlo anche noi. Altro che croci di vetta, sono le sorgenti i luoghi sacri. Con quell’acqua riempio una bottiglia e poi riempio la tazza di legno che ho sul tavolo. Torna, ti prego, mi sembra che dica in silenzio la tazza”.

L’anima della montagna

Cognetti intraprende così un viaggio a piedi, insieme al suo compagno quadrupede Laki, verso le sorgenti e attraverso ambienti alpini sterminati caratterizzati dai loro apparenti silenzi, pieni in realtà dei loro suoni e dei loro abitanti: gli animali selvatici, ma anche coloro che custodiscono i rifugi d’alta montagna. “Desideravo che i personaggi del film vivessero come gli animali, che anche loro fossero soprattutto corpi, gesti, parti della montagna”, spiega Cognetti. “Non tante parole. Ho voluto coglierli nel loro fare, entrare con lo stesso silenzio e la stessa pazienza nella loro intimità”.

Il documentario è un’immersione visiva e sonora nell’anima della montagna, nella sua trasformazione e nel suo essere viva. Una ricerca che diventa subito ascolto, dell’ambiente, dell’acqua, ma anche di noi stessi, dei nostri pensieri, per trovare la forza per affrontare le sfide ambientali e climatiche.

Cognetti ci accompagna in tre rifugi d’alta quota, offrendoci grazie alle parole di chi li abita una visione della montagna fatta di silenzi, tempo dilatato, condivisione e ascolto.

C’è l’Orestes hutte, il primo rifugio vegano delle Alpi, con Arturo e i suoi 80 anni di vita in quelle valli che continua a esplorare secondo i suoi tempi, e sua figlia Marta che si sente custode del rifugio ma non della montagna. Si arriva poi al Quintino Sella al Felik, uno dei rifugi più alti d’Europa, con il sorriso di Corinne e la genuinità dello sherpa nepalese Sete che offre il suo essere, dall’Himalaya alle Alpi.

Infine, il rifugio Mezzalama che sovrasta la Val d’Ayas e si trova appena sotto al ghiacciaio, da cui spesso si vedono i seracchi staccarsi. Da lì, salendo verso il Lambronecca (il rifugio Guide d’Ayas) ci si imbatte in un lago effimero, uno di quelli chiamati così perché si creano dalla fusione dei ghiacciai, e non si sa quanto rimarranno lì.

Tutto ghiaccio che spariva, ghiaccio vecchio di secoli e di millenni che ci salva durante la siccità e lo farà fino alla fine. Benedetto ghiacciaio, santo ghiacciaio. Sul monte Rosa una volta ci andavo con spirito d’alpinista, ora di pellegrino.

Questo viaggio, emozionante e introspettivo, ci porta in volo in equilibrio con un rapace e nella bocca del ghiacciaio, tra gli alberi più a bassa quota e nei pensieri di chi vive da sempre questa valle, come Remigio, e la apprezza nelle “stagioni di mezzo”, quando si svuota e la montagna si riprende i suoi tempi e i suoi colori.

Il documentario è un pellegrinaggio verso l’anima della montagna, è un invito a toccare e comprendere i suoi cambiamenti, e a entrare in contatto con noi stessi. “Non è un film che parla di come possiamo salvare la montagna. Questo è un film su come la montagna potrebbe salvare noi”.

Fiore Mio, diretto e interpretato da Paolo Cognetti, con le musiche di Vasco Brondi, prodotto da Samarcanda Film, Nexo Studios, Harald House e EDI, sarà nelle sale italiane fino al 27 novembre.

 

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