Finora sono morte almeno sette persone. Le forze di polizia stanno investigando per capire se gli incendi siano dolosi e hanno arrestato sette persone.
Sul delta del fiume Mekong, il “serpente dolce” ferito da siccità e dighe
La siccità peggiore degli ultimi 90 anni ha abbassato le acque e messo a rischio milioni di abitanti del fiume Mekong. Una situazione esasperata dal boom delle dighe.
Intatto fino agli anni Novanta, il “serpente dolce” del Sudest asiatico è oggi ferito in più punti. Sono bastati vent’anni di cambiamenti climatici e costruzioni di dighe per mettere a rischio il fiume Mekong, che dall’Himalaya cinese scende attraverso Tibet, Yunnan, Birmania, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam. Ma la stagione secca del 2016 ha inferto il colpo più grave in ordine di tempo. Il Niño, intenso e prolungato, ha causato in tutta la regione la siccità peggiore degli ultimi 90 anni. Per giugno si attende l’arrivo dei monsoni, ma ci vorranno mesi per colmare i danni provocati dalla desertificazione e dalla salinizzazione.
Tuttavia, le acque del Mekong non sono scese al livello più basso dell’ultimo secolo esclusivamente per i cambiamenti climatici, tra cui il riscaldamento dell’oceano Pacifico, detto El Niño. Secondo varie organizzazioni, come International rivers, il boom delle dighe – partito in sordina nel 1993 e accelerato dal 2009 – avrebbe avuto un impatto grave sul fiume, sulle comunità e sull’ecosistema. Al momento si contano sei dighe nell’alto Mekong in territorio cinese, ma altre undici sono in costruzione o già pianificate fra Vietnam e Laos.
Una stagione secca più calda e più lunga
“Gli esperti temono che la crisi attuale diventi la nuova normalità per la Cambogia e i suoi vicini”, scrive Jennifer Rigby su Irin News. In 18 delle 25 province cambogiane manca l’acqua. Oltre 93mila famiglie povere soffrono la fame e la sete. “Quest’anno è terribile”, dice al giornalista di Irin il pescatore Kreun Phear, che vive sul lago Tonle Sap, alimentato dagli affluenti del Mekong. “Non riusciamo più a trovare pesci. Nessuno ci aiuta e siamo quasi alla fame”. L’uomo abita a Chong Prey Lay, uno dei villaggi che diventano galleggianti quando si alza il livello dell’acqua nella stagione delle piogge. Qui tutto dipende dal lago, i mezzi di sussistenza e il nutrimento. Le case sono palafitte, i mercati fluttuanti. I locali dicono che non si era mai visto un tale disastro naturale.
I dati sull’agricoltura vietnamita sono allarmanti
Le Nazioni Unite riportano che in Vietnam il 10 per cento delle risaie è andato distrutto. Il basso livello del fiume ha permesso all’acqua salata di penetrare oltremisura nella regione del delta. Due milioni di vietnamiti, per lo più contadini, sono senz’acqua potabile. Gli scienziati di vari paesi asiatici stanno creando varietà più resistenti di riso e studiano nuove tecniche di desalinizzazione dei campi. È indispensabile adattarsi ai cambiamenti climatici già avvenuti. In aggiunta, per calmierare gli effetti della siccità, il World economic forum aveva suggerito qualche anno fa di gestire meglio la raccolta dell’acqua piovana.
Pochi giorni fa Jane Perlez del New York Times ha spiegato come sia in discussione la “first rice policy”, ovvero la politica di Hanoi che dagli anni Settanta punta sul “riso prima di tutto” per far crescere il Paese. La coltivazione intensiva di tre tipologie di riso, al posto delle due tradizionali, avrebbe infatti impoverito il suolo, peggiorando anch’essa gli effetti della siccità.
L’esperto di mercati energetici Tim Daiss scrive su Forbes: “Nei primi quattro mesi del 2016 la crescita economica vietnamita è scesa al 5,6 per cento […] Nello stesso periodo del 2015 il pil era aumentato del 6,17 per cento”. Il riso è uno degli alimenti base e principale prodotto di esportazione (in ordine di volumi) per l’India, la Thailandia e il Vietnam. Daiss racconta come gli abitanti delle zone rurali vietnamite stiano diventando profughi ambientali: “Nel delta del Mekong molti contadini non sono riusciti a far fronte alla povertà creata dalla siccità e hanno lasciato quest’area per cercare un’occupazione nelle aziende manifatturiere o altro. Le famiglie si sono divise e la maggior parte di queste persone ha perso non solo i mezzi di sussistenza, ma anche la speranza”.
Il boom delle dighe
C’è chi, come la coalizione Save the Mekong (Stm), accusa le dighe di esacerbare gli effetti dei cambiamenti climatici. Sul sito del gruppo si legge: “I governi di Cambogia, Laos e Thailandia stanno pianificando undici grandi dighe idroelettriche sul Mekong. Se saranno costruite, bloccheranno le principali migrazioni dei pesci e distruggeranno la vita di questo importante fiume, mettendo a rischio milioni di persone che da esso dipendono per la loro sicurezza alimentare e per i loro introiti”. La coalizione spiega che alcune specie, come il delfino dell’Irrawaddy, potrebbero estinguersi e che le dighe del tratto cinese hanno già reso imprevedibile il livello dell’acqua più a sud, in Birmania, Laos e Thailandia. Alla foce, inoltre, il fiume potrebbe non portare più con sé i sedimenti necessari a mantenere vivo il delta del fiume. Secondo la Stm, bisognerebbe riformare l’economia energetica che attraverso le dighe delle centrali idroelettriche alimenta megalopoli distanti e affamate di elettricità. Per colmare il fabbisogno urbano bisognerebbe percorrere la strada dell’efficienza energetica, ovvero “fare di più con meno”, eliminare gli sprechi e investire in nuove tecnologie decentralizzate.
Un altro rischio è che gli abitanti della valle del Mekong, per lo più contadini e pescatori che vivono con l’equivalente di pochi euro al giorno, entrino in conflitto tra loro. Lo aveva detto la Mekong river commission (Mrc) nel lontano 2004, ma gli accordi per costruire nuove dighe sono continuati. L’International rivers network ricorda che è stata proprio la Mrc, agenzia inter-governativa fra Laos, Vietnam, Thailandia e Cambogia, a proporre con Cina e Birmania – che non aderiscono però alla Mrc – la costruzione di oltre 100 dighe negli ultimi vent’anni.
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