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Una coalizione internazionale di organizzazioni per i diritti del lavoro ha pubblicato uno studio che evidenzia la necessità di trasparenza della catena di approvvigionamento nell’industria dell’abbigliamento e delle calzature.
La necessità di trasparenza e di etica richiesta a gran voce dai consumatori, si sta facendo largo in molti settori, tra questi quello dell’abbigliamento. Secondo il rapporto Follow the thread (letteralmente Segui il filo), presentato da una coalizione internazionale di gruppi di difesa dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori, tra cui Human Rights Watch, Clean Clothes Campaign, Worker Rights Consortium, e Maquila Solidarity Network, molte più aziende dell’abbigliamento e delle calzature dovrebbero garantire una maggiore trasparenza nelle proprie filiere.
Il rapporto Follow the thread valuta la disponibilità di oltre settanta aziende a pubblicare informazioni sulla propria catena di approvvigionamento. Il documento, in particolare, chiede alle imprese di diffondere le informazioni che permettano ai consumatori di scoprire dove vengono realizzati, e come, i loro prodotti.
Sono passati quattro anni dal crollo della fabbrica di indumenti Rana Plaza, in Bangladesh, avvenuto il 24 aprile 2013. Il crollo uccise oltre 1.100 dipendenti e ne ferì più di duemila, diventando il disastro nel settore dell’abbigliamento con il maggior numero di vittime, che lavoravano per stipendi da fame per conto di grandi marchi internazionali, come Benetton. In seguito all’incidente è stato estremamente difficile scoprire quali aziende avevano acquistato capi di abbigliamento da quella specifica fabbrica, è stato possibile risalire alle aziende coinvolte solo intervistando i sopravvissuti e guardando le etichette emerse dalle macerie. Il disastro di Rana Plaza avrebbe potuto essere stato evitato se ci fosse stata più trasparenza nell’industria dell’abbigliamento.
Proprio l’incidente avvenuto in Bangladesh è stato il punto di partenza del rapporto Follow the Thread, che chiede trasparenza affinché simili fatalità non accadano più. I promotori dell’iniziativa hanno contattato 72 importanti aziende di abbigliamento e calzature, chiedendo loro di sottoscrivere una dichiarazione di trasparenza, acconsentendo a rendere disponibili al pubblico le informazioni sui siti di produzione.
Le aziende che aderiscono all’iniziativa si impegnano a pubblicare regolarmente sul proprio sito web un elenco che comprende tutti i siti da cui l’azienda si rifornisce. Sono inoltre richieste altre informazioni, come il tipo di prodotti realizzati negli stabilimenti e il numero di lavoratori impiegati. “Un livello di base della trasparenza della catena di approvvigionamento nel settore dell’abbigliamento dovrebbe essere la norma nel XXI secolo”, ha dichiarato Aruna Kashyap, senior counsel della divisione diritti delle donne di Human Rights Watch.
Secondo il rapporto un’adeguata trasparenza può migliorare la reputazione e l’immagine di un’azienda, offrendole un vantaggio competitivo. “Dopo il Rana Plaza e gli altri disastri, i gruppi in difesa dei diritti umani, i sindacati e alcune aziende e investitori hanno capito quanto la trasparenza sia importante per prevenire gli abusi ed assicurare responsabilità”, ha affermato Ben Vanpeperstraete, coordinatore delle attività della Clean Clothes Campaign.
Delle 72 aziende contattate, solo 17 saranno in linea con gli standard fissati dell’iniziativa entro la fine del 2017. Tra queste Patagonia, H&M, Levi, Adidas, C&A, Clarks e Esprit. La maggior parte delle imprese è invece molto indietro, 25 aziende non pubblicano infatti alcuna informazione sulla fabbriche che confezionano i loro prodotti e non si sono impegnate a pubblicare i dati richiesti. Tra queste figurano Inditex (proprietario di Zara), Hugo Boss, Mango, Forever 21, Primark, American Eagle Outfitters, Armani e Carter. Cinque aziende, tra cui Gap, Marks & Spencer, e Tesco, hanno invece quasi raggiunto gli standard mentre 18 hanno intrapreso la strada giusta.
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