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Perché tutte le città dovrebbero adottare una food policy urbana. L’esempio di Milano
Cambio menu a scuola, cinque hub antispreco, fare rete: la vicesindaca Anna Scavuzzo spiega perché Milano fa da esempio per le politiche alimentari.
- Dopo Expo 2015 Milano ha promosso il Milan urban food policy pact, che oggi conta oltre 260 città nel mondo. L’obiettivo di questa rete è fare network e dare strumenti concreti alle amministrazioni locali che cercano di implementare una food policy urbana sui temi del cibo e dell’acqua.
- Garantire cibo sano per tutti, combattere lo spreco e la povertà alimentare, favorire l’orticoltura urbana, gestire al meglio le risorse idriche: sono queste alcune delle priorità che Milano si è data nella food policy cittadina, coordinata dalla vicesindaca Anna Scavuzzo.
- Dal 2015 al 2021, grazie al cambio dei menu scolastici, dove sono state favorite le proteine vegetali, Milano ha calcolato un taglio del 42,89% nelle emissioni di CO2 equivalente.
- Il progetto deI Food waste hub milanesi, cinque centri antispreco dove vengono redistribuite le eccedenze alimentari di aziende e supermercati, è considerato un modello efficace e ha vinto l’Earthshot Prize nel 2021.
Attraverso la lente del cibo si può raccontare gran parte della vita di una città. Perché il cibo entra nella vita quotidiana di tutti quelli che la abitano, da chi lo produce, a chi lo commercia fino a chi lo consuma. L’approvvigionamento del cibo salutare e dell’acqua potabile diventerà cruciale in città che soffrono le conseguenze della crisi climatica e che crescono sempre più velocemente (entro il 2050 si stima che due terzi della popolazione mondiale vivranno in aree urbane). Per questo diverse città stanno scegliendo di adottare una food policy urbana, ovvero una serie di politiche, azioni e programmi pubblici relativi a questi temi.
Già da prima di Expo 2015, Milano ha iniziato un percorso per diventare un esempio riconosciuto di buone politiche e riflessioni sul tema del cibo. Con Expo, poi, ha promosso il Milan urban food policy pact, che oggi conta oltre 260 città aderenti in tutto il mondo, di cui una ventina italiane (tra queste Bergamo, Bologna, Bari, Cagliari, Trento, Torino). Questo patto è uno strumento concreto che i sindaci o i loro delegati utilizzano per confrontarsi e scambiarsi buone pratiche su ambiti che vanno dalla distribuzione del cibo al contrasto allo spreco alimentare.
A tenere le fila di queste politiche, in quella che viene spesso vista solo come una città che “consuma”, senza apportare niente al sistema alimentare, è la vicesindaca Anna Scavuzzo, delegata alla food policy. È lei a spiegare le priorità che Milano si è data con questa policy (garantire cibo sano per tutti, promuovere la sostenibilità, educare al cibo, lottare contro gli sprechi, sostenere la ricerca scientifica) e gli strumenti concreti attraverso cui Milano cerca di raggiungere gli obiettivi, dalla promozione degli orti e dell’agricoltura urbana, al lavoro sui menu scolastici fino ai Food waste hub, un modello efficace di raccolta e redistribuzione delle eccedenze alimentari che ha vinto l’Earthshot prize nel 2021.
A otto anni dall’inizio di queste politiche a Milano, perché diventa urgente per tutte le città dotarsi di una food policy urbana?
Perché sono sfide complesse, che si possono affrontare solo partendo da una riflessione condivisa e con una regia istituzionale che metta al centro l’interesse pubblico. Il Comune di Milano è riuscito negli anni a far collaborare associazioni di categoria, imprese, enti del terzo settore, realtà di quartiere, e abbiamo capito che questo è l’unico modo per agire efficacemente sul tema del cibo e dell’acqua. Non si tratta di mettere in pratica qualche progetto isolato, per quanto buono: la città sceglie su cosa concentrarsi e chiede a ciascuno di questi attori di dare un contributo in modo più organizzato. Quando è arrivata la pandemia, per esempio, ci siamo subito messi in contatto con le altre città del Milan urban food policy pact. Avevamo capito che stavamo per affrontare una sfida enorme in termini di approvvigionamento del cibo, con le scuole chiuse, le persone che non potevano spostarsi, le disuguaglianze che si sarebbero accentuate. In alcuni momenti di scambio, molti forti dal punto di vista umano, le città in lockdown spiegavano alle altre in procinto di entrarci quali problemi si erano creati. Quelle città, con dei tavoli di confronto già aperti sui temi del cibo, hanno potuto reagire in maniera più pronta e coordinata.
Le città devono riallacciare un legame con la produzione del cibo, sia in senso filosofico che concreto?
Sicuramente consolidare questo legame, di cui comunque siamo più consapevoli di quanto sembri. Per questo al centro della nostra food policy c’è l’educazione nelle scuole, per rinsaldare non solo il legame con la terra ma anche con chi il cibo lo lavora e lo produce. Una città grande come Milano è anche in grado di incidere nell’educazione alimentare attraverso scelte concrete quando si tratta di acquisti pubblici. La società Milano Ristorazione prepara ogni giorno 85mila pasti, tra scuole, centri diurni, residenze per anziani. Stiamo facendo una riflessione importante sulla promozione della salute e la prevenzione di malattie, perché il tema alimentare include non solo la scarsità di cibo ma impone anche di pensare ai vari tipi di malnutrizione tipici delle aree urbane, che portano a obesità e malattie cardiovascolari. Ecco, per esempio, abbiamo scelto di togliere il sale dall’acqua di cottura dei pasti degli asili nido. Parliamo di 8mila bambini che si stanno abituando così a una sapidità diversa e che, potenzialmente, in futuro utilizzeranno meno sale.
Come una food policy urbana invece può agire per contribuire al contrasto della crisi climatica?
Penso sempre agli acquisti pubblici: ad esempio riducendo il consumo di carne e di carne rossa in particolare, preferendo proteine vegetali. È una scelta che premia sia dal punto di vista della produzione di CO2 che di salute. I cardini della cosiddetta dieta planetaria ormai sono noti e così si abituano i bambini alla soia invece che al manzo, ai legumi anziché al maiale, ai cereali integrali al posto delle farine raffinate. Attraverso il progetto Cool food pledge, insieme al World resource institute, abbiamo calcolato che con questi cambi nei menu è stata registrata una diminuzione del 42,89 per cento nelle emissioni di CO2 equivalente dal 2015 al 2021. Agire sul cibo quando si hanno dei numeri alti, come nel caso di Milano, vuol dire dare un contributo significativo.
Cosa insegna invece l’esperienza dei Food waste hub, i cinque centri di quartiere contro lo spreco alimentare che redistribuiscono cibo a chi ne ha bisogno dopo averlo raccolto tra le eccedenze di aziende e supermercati?
Sono innanzitutto un grande esercizio di coordinamento e collaborazione. Il momento più delicato è stato passare dal progetto pilota, il primo hub inaugurato nel Municipio 9, a nord della città, a un modello scalabile e riproducibile. Abbiamo capito che non si poteva fare un “franchising” di esperienze uguali. Ogni quartiere, ogni ente che doveva gestire l’hub, ogni nuovo soggetto coinvolto doveva essere libero di dare la propria impronta, per questo oggi i Food waste hub sono uno diverso dall’altro. E questo ha permesso inoltre di fare da esempio anche a città molto diverse da Milano: oggi l’idea di un hub antispreco è fattibile da New York a Riad. È questo che vogliamo mostrare quando accogliamo le decine delegazioni delle città straniere in visita ogni anno, un modello che possono applicare loro.
Quali sono, al contrario, gli esempi positivi che arrivano dalle città estere?
Sono sicuramente molti. Mi ha colpito l’evoluzione straordinaria delle città africane su questi temi. Parliamo di megalopoli da 10-12 milioni di abitanti, dove Milano è un granello di sabbia a confronto. Dal 2015 abbiamo visto i cambiamenti che città come Dakar sono riuscite ad attuare, per esempio nella promozione dei micro jardins, gli orti urbani. Non credo sia un caso che quest’anno il Milan pact award, il premio che viene assegnato annualmente a una città aderente al Milan urban food policy pact, sia stato vinto proprio da una città africana, ovvero Addis Abeba. Sono riusciti da zero a implementare un sistema di refezione scolastica, che non avevano, per migliaia di bambini della scuola primaria, facendo sistema con gli enti internazionali presenti in città e creando delle cucine gestite dalle mamme, quindi includendo anche un lavoro di contrasto alla disoccupazione femminile. Se guardo alle città statunitensi, stanno tutte lavorando invece in modo interessante sui temi della circolarità, del recupero e della cultura del cibo sano.
E a livello europeo qual è la sensibilità su questi temi?
È in corso il processo di costruzione di una cosiddetta Sustainable food law, una sorta di food policy dell’Unione europea. Insieme ad altre città del Milan urban food policy pact e della rete Eurocities, abbiamo partecipato a una serie di approfondimenti di confronto con la Commissione europea, dove abbiamo potuto portare idee e indicazioni. Segno che le pratiche locali e il noto pragmatismo dei sindaci sono d’interesse anche a Bruxelles.
Quali sfide future saranno centrali da gestire a livello urbano sui temi del cibo e dell’acqua?
L’approvvigionamento del cibo, un bisogno primario, è un tema a livello planetario: come faremo in futuro a sfamarci e quale cibo andremo a consumare e produrre, sono questioni su cui dovremmo interrogarci fin da ora. E anche come faremo a gestire le disuguaglianze nell’accesso al cibo sano. In più, la crisi idrica per le città rappresenta un doppio problema.
Da un lato abbiamo il consumo alimentare-domestico e quello per la produzione agricola, dall’altro la mancanza d’acqua va a impattare in modo significativo su tutto il sistema di irrigazione e sui progetti di riforestazione, fondamentali per il tema del riscaldamento urbano e la vivibilità stessa delle città.
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