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Stefano Fogliata è entrato nel campo da calcio di Bourj El Barajneh per giocare, conoscere e capire. Lontano dagli stereotipi e nel buio della sera, quando tutti gli attori umanitari se ne vanno e la vita nel campo profughi è senza filtri.
Footballization è uno spaccato di umanità, sport, amicizia, discriminazione, confini e politica. Il lungometraggio che Stefano Fogliata ha girato con Francesco Furiassi e Francesco Agostini, distribuito da Mescalito film, è nelle sale in questi giorni.
A sud di Beirut, vicino al quartiere Hezbollah, c’è un’area di un chilometro quadrato abitata da oltre 45mila profughi, palestinesi, siriani e iracheni. Un dedalo di vicoli, molti dei quali percorribili solo a piedi, dove si muore fulminati perché l’elettricità attraversa il campo in grovigli di fili che corrono intorno ai tubi dell’acqua, salata perché arriva nelle case direttamente dal mare. Si vive miseramente dentro il campo, in totale assenza di spazio, completamente esclusi da ciò che accade fuori e senza alcuna prospettiva di futuro.
“In questi contesti il ritorno a casa è un tema molto profondo e trasversale”, spiega Stefano. “Ci sono i bambini siriani arrivati da poco nel campo che, dopo l’allenamento di calcio, non sanno trovare la strada di casa in quel labirinto e devono farsi accompagnare. E poi ci sono le storie dei miei compagni di squadra, come il mio amico Louay, senza documenti, senza permessi, senza diritti e senza nemmeno un luogo da poter chiamare casa”.
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Non è stato facile indossare la maglia della squadra di Bourj El Barajneh. Ad aprire le porte a Stefano è stata la passione autentica e sfrenata per il pallone. “L’ho fatto prima di tutto per la voglia di giocare, esattamente come avrei fatto in qualsiasi altra parte del mondo”, racconta. “Ci sono voluti mesi, ma alla fine mi hanno accolto proprio perché hanno riconosciuto la mia genuinità. Non era certo comune la presenza di un italiano, da solo e in quel contesto. La fiducia ce la siamo davvero giocata sul campo e ricordo con sincera emozione il momento in cui il presidente mi ha finalmente consegnato il tesserino. Abbiamo giocato insieme due anni, sia a livello locale sia nazionale, compresa la finale con il risultato che vedrete nel film”.
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Oltre a tutte le altre discriminazioni, i rifugiati palestinesi non hanno il permesso di giocare nelle squadre ufficiali libanesi, se non per quote minime. Per questo negli anni Settanta hanno deciso di creare i loro campionati. Oggi ci sono tre divisioni ufficiali che raggruppano circa cinquanta squadre diffuse su tutto il territorio nazionale con 10mila tesserati. Intorno al rettangolo verde accadono cose che altrove non potrebbero accadere perché, per molti giocatori, anche solo spostarsi e andare a una partita in trasferta è un rischio.
“Il calcio è lontano dalla presenza delle organizzazioni umanitarie e quindi anche dall’immagine del rifugiato come destinatario di assistenza”, aggiunge Stefano. “Ho visto giocare nella stessa squadra persone che fuori dal campo non si saluterebbero nemmeno; i siriani che arrivano vengono integrati nelle diverse squadre perché, come si dice lì, non conta il passaporto, ma quanto sei bravo a giocare. Palestinesi, passibili di arresto in ogni momento perché senza i documenti in regola, che grazie alla federazione viaggiano in tutto lo stato. Le squadre sono legate ai partiti, ma è il gioco che prevale sulle affiliazioni politiche per cui, ad esempio, ci sono giocatori schierati politicamente che sono andati a giocare nella squadra del partito opposto. È ovvio che non si tratta di una visione romantica dello sport che azzera le distanze, ma sul campo tutte queste componenti letteralmente si rimettono in gioco”.
Far parte di una squadra di calcio permette ai giovani palestinesi e siriani senza documenti di uscire dai campi profughi. #FrancescoFuriassi ci mostra da un punto di vista particolare la questione dei profughi in #Libano…#Footballization #OgniCosaèilluminata @raitre pic.twitter.com/VM0Hy6muYb
— Kilimangiaro (@KilimangiaroRai) June 17, 2018
Footballization racconta una stagione calcistica con video e interviste straordinarie realizzate grazie alla disponibilità della squadra, del presidente e dei dirigenti. “Ci hanno permesso, ad esempio di fare riprese di Bourj El Barajneh dall’alto e di notte, cosa normalmente vietate per ovvi motivi”, conclude Stefano. “Nel documentario io sono la voce narrante, ma i veri protagonisti sono quattro miei compagni di squadra e una leggenda del calcio palestinese in Libano, che hanno appoggiato questo progetto in modo autentico spingendosi molto in là anche nel racconto delle loro vite. Per questo Footballization è sì stato scritto da me, ma anche da tutta la mia squadra, di cui ero semplicemente il numero 13”.
Dopo la prima esperienza insieme a Beirut, il trio Fogliata, Furiassi e Agostini è attualmente impegnato in un progetto ancora dedicato allo sport e alla sua capacità di stravolgere dinamiche e stereotipi consolidati: il web-doc L’oriole di Asmara che racconta il ciclismo in Africa come modello positivo di integrazione, di lotta alla discriminazione e di riscatto sociale attraverso le storie dei campioni, simbolo e fonte di ispirazione per milioni di giovani africani e una città, Asmara, il paradiso del ciclismo.
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