La vulnerabilità delle foreste in Italia è in aumento, cosa fare per monitorare il fenomeno e intervenire per migliorare la resistenza e la resilienza.
Foreste e biodiversità. Quando la mano dell’uomo è amica: storie di collaborazione tra uomini e alberi
Non sempre ciò che l’uomo tocca, distrugge. A volte un intervento attento e scientifico può far bene alla diversità, in particolare delle foreste. Ad esempio, pensereste che tagliando uno o più alberi si può contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici?
con il contributo di Angela Rositi, Fabio Cogo, Donato Salvatore La Mela Veca, Renzo Motta
È mattino presto nel cuore della foresta pluviale nel Tai National Park, in Costa d’Avorio. Gli scimpanzé se ne stanno nascosti nella volta della foresta tropicale, tra rami e foglie che si elevano a più di trenta metri dal suolo, a cibarsi di frutti. A terra, poco distante, un esercito confuso e rumoroso di ditteri e coleotteri banchetta sulla carcassa di una mangusta. Il processo di decomposizione è veloce, le probabilità che la carcassa possa essere esaminata per scoprire le cause della morte sono molto basse. Ma indovinarla non è difficile. Negli ultimi anni, l’antrace ha causato la morte di circa il 38 per cento della fauna del parco, rappresentando un ulteriore pericolo per questo residuo di foresta pluviale già minacciata dalle coltivazioni di cacao, di cui la Costa d’Avorio è leader mondiale della produzione.
A causa della difficoltà di individuare gli animali morti nel fitto intrico di piante e radici della foresta, il rischio di non riuscire a misurare la conseguente perdita di biodiversità è molto alto. Ma la soluzione arriva proprio da quell’operoso esercito di mosche e moscerini, che non si limitano a banchettare su quel corpo, ma ne campionano un piccolo pezzo di dna all’interno del loro apparato digerente. Sequenziando questi residui genetici, i ricercatori del Robert Koch Institute di Berlino sono stati in grado di individuare le specie di mammiferi, uccelli o occasionalmente anfibi delle quali le mosche si sono cibate. Da questa semplice ma ingegnosa idea, che sembra uscita da un film di fantascienza degli anni ’80, è stato possibile ottenere un inventario della biodiversità della foresta: un elenco delle specie animali che la popolano e la loro distribuzione. Come in un videogioco indie, questa ricerca rivoluzionaria ha aperto la strada per passare da un livello infinitamente piccolo della biodiversità forestale (quella genetica) ad uno ben più complesso ed articolato: le interconnessioni tra le specie.
Come si misura la biodiversità?
Tradizionalmente la biodiversità è stimata e misurata con un numero: la ricchezza di specie. Questo indicatore, preso in modo grezzo oppure manipolato matematicamente, ci rende in grado di confrontare habitat diversi sulla base delle specie che li abitano. Ma la sola indicazione del numero di specie può essere fuorviante. Intanto, la ricchezza di specie è soggetta a problemi di scala: un numero elevato di specie all’interno di un tratto di foresta (la “diversità alfa”) può mascherare un livello più basso di diversità tra habitat diversi (la “diversità beta”) e quindi una probabile omogeneizzazione della flora o della fauna a livello regionale (“diversità gamma”). A questa scala più ampia, la cosa più importante è favorire le connessioni fisiche tra gli ecosistemi ed evitare la loro frammentazione. Confondere tra loro questi livelli può portare a conclusioni fuorvianti per la conservazione.
Misurare la biodiversità con la ricchezza delle specie può essere fuorviante
Supponiamo poi di avere due habitat con lo stesso numero di specie: saremmo portati a dire che i due ambienti abbiano la stessa rilevanza ecologica. In realtà, alcune specie potrebbero essere simili, comuni e ridondanti, altre invece più rare, complementari e con funzioni diverse. Nel caso delle piante, ad esempio, le specie potrebbero utilizzare lo stesso tipo di risorse (una certa quantità di luce, una certa quantità di nutrienti del suolo) ma svilupparsi o fiorire secondo una fenologia distinta – ossia in periodi diversi dell’anno, attirando così specie diverse di impollinatori. Questo fenomeno è espresso dal concetto di biodiversità funzionale, cioè la diversità delle caratteristiche funzionali delle singole specie e delle loro interazioni (come competono o cooperano, come reagiscono al variare di un carattere dell’ambiente, con che velocità si decompongono) piuttosto che al numero di specie di per sé.
Esempi di caratteri funzionali sono la dimensione dei semi e la modalità di dispersione, la capacità di germogliare o di assorbire l’azoto atmosferico, ma anche il comportamento notturno o diurno degli animali e la durata del loro stadio larvale. In pratica, il kit di sopravvivenza di ogni specie, che permette ad una comunità ecologica di rispondere ai cambiamenti ambientali e di strutturarsi in reti complesse.
Ricette per una foresta “biodiversa”
Dagli strati più profondi del suolo esplorati dalle radici degli alberi, fino alle chiome che si alzano discontinue, una foresta rappresenta la massima espressione di queste interconnessioni. Le foreste globalmente coprono circa il 30 per cento delle terre emerse – 0,6 ettari di foresta per ogni abitante del pianeta – ma provvedono a circa l’80 per cento della biodiversità terrestre. Ma non tutte le foreste sono uguali. Se la “nostra porzione” di foresta fosse ai tropici, potrebbe contenere fino a 300 specie di alberi. Numeri che non si possono certo confrontare con le foreste mediterranee, dove nella “nostra porzione” potremmo trovare al massimo una decina di specie arboree, o con quelle temperate, dove non sarebbero più di quattro o cinque.
Accanto all’effetto bioma, la biodiversità delle foreste è funzione del tipo e della frequenza dei disturbi di origine naturale e umana che hanno modellato l’ecosistema, regolando i flussi di materia organica e interagendo con i processi riproduttivi. Esempi di disturbo sono il fuoco, le tempeste, le pullulazioni di insetti, una valanga, un albero che cade – insomma, qualsiasi evento che altera nel tempo e nello spazio la struttura di una popolazione o di una comunità. La disponibilità di luce e la quantità di legno morto sono esempi paradigmatici di quei fattori che possono essere modificati dall’insorgere di un disturbo, e che possono promuovere la diversità di impollinatori, artropodi e licheni associati a particolari condizioni di luce, o l’abbondanza di insetti, piante e uccelli legati al legno morto.
Non tutte le foreste sono uguali
Quando le foreste diventano troppo omogenee a causa di interventi scorretti da parte dell’uomo, si impoveriscono dal punto di vista della varietà di catene alimentari e della biodiversità che possono ospitare. Lo sanno bene gli orsi che abitano le foreste del nord America, dove la sequenza naturale degli incendi da fulmine, che è parte integrante di quell’ecosistema, è stata interrotta nel secolo scorso dall’uomo, che ha iniziato a spegnere ogni fiamma nel timore che danneggiasse la foresta.
Gli habitat forestali aperti e popolati da giovani piante, come quelli che seguono il passaggio di un incendio, si sono di conseguenza ridotti – e con essi le specie vegetali di cui l’orso si ciba. Per sperare di superare il letargo invernale, l’orso in autunno deve aumentare la propria massa corporea fino al 60 per cento, cibandosi per più di 14 ore al giorno. Dopo il passaggio di un incendio, che elimina gli alberi più grandi, le specie arbustive esigenti di luce hanno la possibilità di svilupparsi e produrre i frutti di cui l’orso si ciba: mirtilli, ribes, more e lamponi. Anche le erbe aumentano, rendendo l’habitat idoneo anche per gli insetti e gli ungulati che se ne nutrono. Ma in assenza degli incendi e della vegetazione che li seguiva, come hanno potuto gli orsi continuare ad alimentarsi?
Nelle foreste del nord America la sequenza naturale degli incendi da fulmine, che è parte integrante di quell’ecosistema, è stata interrotta nel secolo scorso dall’uomo, che ha iniziato a spegnere ogni fiamma nel timore che danneggiasse la foresta
Un patto tra uomo e foresta
Cercando di capire dove gli arbusti potevano crescere meglio nelle foreste canadesi, i ricercatori dell’Università dell’Alberta hanno scoperto che i grizzly amavano frequentare le aree di foresta temporaneamente tagliate dall’uomo, e soprattutto gli ecotoni (cioè le zona di transizione) tra le foreste adulte e quelle giovani che rinascevano dopo i tagli. Gestire una foresta, oltre a produrre legno, può quindi servire a replicare le dinamiche che avvengono naturalmente, e persino migliorare la qualità degli habitat, regolando la quantità di luce che raggiunge al suolo in funzione delle preferenze di ciascuna specie.
Gestire una foresta può servire anche a replicare le dinamiche che avvengono naturalmente, e persino migliorare la qualità degli habitat
Non solo. Avreste mai pensato che tagliando uno o più alberi si può contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici? Sembrerebbe un paradosso, ma osservato dal punto di vista di un ciliegio o di un sorbo, il discorso si fa diverso. Attraverso particolari interventi (in selvicoltura chiamati diradamenti) è possibile favorire lo sviluppo di quelle specie di alberi e di arbusti che per caratteristiche ecologiche, o per intervento passato dell’uomo, sono presenti nei boschi solo in maniera saltuaria (specie sporadiche).
Quando non soffrono più della competizione per la luce da parte degli altri alberi, le loro chiome si allargano, producono più frutti e attirano diverse specie di animali. Una volta mangiati i loro frutti, gli animali contribuiscono a diffondere i loro semi, che vengono espulsi dal corpo spesso a diverse centinaia di metri dalla pianta madre, e lì possono germogliare. Per il ciliegio del Giappone (Prunus verecunda), ad esempio, passare attraverso lo stomaco (e non solo) dell’orso o di una martora rappresenta, nel medio e lungo periodo, la sola possibilità di sopravvivere ai cambiamenti climatici: quando all’inizio dell’estate l’orso sale verso le cime delle montagne, trasporta il seme verso foreste con temperature minori, regalando una possibilità alla futura pianta e alla sopravvivenza della specie.
Sembrerebbe un paradosso, ma avreste mai pensato che tagliando uno o più alberi si può contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici?
Le piante, naturalmente, non hanno la possibilità di muoversi, ma la selvicoltura, modificando alcuni parametri dell’ambiente fisico, è in grado di conservare le specie associate ad esso e le loro connessioni. E così, mentre nelle foreste primarie tropicali è meglio non alterare gli equilibri della natura, nelle foreste europee, modificate dall’uomo già da centinaia di anni, sono molti i modi in cui un intervento attento e “scientifico” può far bene alla diversità. Il progetto Life GoProFor, finanziato dalla Commissione europea e coordinato da ricercatori italiani, ne ha identificati ben ottantanove, di cui 31 direttamente rivolti al miglioramento degli habitat forestali.
Dal Mediterraneo alle Alpi contro i cambiamenti climatici
Le foreste mediterranee, già profondamente degradate negli ultimi millenni dall’azione dell’uomo, sono particolarmente vulnerabili al cambiamento del clima e a quelle che con molta probabilità nel prossimo futuro saranno stagioni vegetative sempre più secche e calde. Come possiamo sapere qual è il massimo disturbo, il punto di non ritorno, che una foresta di questo tipo può assorbire prima di trasformarsi in un altro ecosistema?
Alcuni uccelli, come lo scricciolo, possono aiutarci a rispondere a questa domanda, perché si comportano da perfetti indicatori ambientali. Lo scricciolo si muove velocemente tra il sottobosco e i rami più bassi, sempre in maniera furtiva, allegra si direbbe, uscendo allo scoperto solo per emettere il suo canto, un trillo acuto e crescente. È una specie forestale, strettamente legata agli habitat di bosco e a condizioni di buona umidità: la sua rarefazione o la contrazione del suo areale quindi rappresentano un campanello di allarme. Nelle foreste della Sicilia la luce rossa si accende nelle zone a rischio di desertificazione, dove lo scricciolo tende a scomparire e ad essere rimpiazzato da altre specie, come la sterpazzolina o il cardellino, legate alla macchia e agli arbusti.
Incrociando i dati ornitologici con quelli relativi alle caratteristiche dei boschi, un progetto è recentemente riuscito a individuare le foreste più sensibili al rischio di desertificazione e ai cambiamenti climatici: e su queste foreste ha applicato una selvicoltura finalizzata alla conservazione e al miglioramento della biodiversità. Già, perché un ecosistema più biodiverso è spesso un ecosistema un ecosistema più stabile e più capace di far fronte alle pressioni dell’ambiente, compresa quella della siccità e della desertificazione. La tecnica più idonea allo scopo è risultata essere, paradossalmente, quella di aprire delle “buche” di piccole dimensioni, eliminando un certo numero di alberi: questo ha permesso una maggiore penetrazione della luce del sole, favorendo le specie di alberi che amano crescere con più luce (le specie “eliofile”). Nella foresta è aumentata così la quota di specie secondarie e sporadiche, come l’acero campestre, il melo selvatico e il biancospino, aumentando anche il grado di biodiversità.
Un ecosistema più biodiverso è spesso un ecosistema un ecosistema più stabile e più capace di far fronte alle pressioni dell’ambiente, compresa quella della siccità e della desertificazione
Regolare i rapporti di competitività tra gli alberi per la biodiversità
Regolare i rapporti di competitività tra gli alberi è uno dei principali strumenti che la gestione forestale può mettere in atto per promuovere la conservazione della biodiversità, non solo nelle foreste siciliane a rischio desertificazione, ma nelle montagne per definizione: le Alpi. Qui l’ambiente è ostico per la vita a causa degli inverni lunghi e rigidi che si alternano ad estati fresche e spesso molto piovose.
Il larice, che domina il paesaggio delle alte quote, è una specie affascinante per la sensazione di forza e nel contempo di leggerezza che trasmette, anche all’osservatore meno esperto. Tra i suoi aghi, che non sono coriacei come quelli delle altre conifere sempreverdi, a piccoli gruppetti si scorge la cincia mora, la più piccola delle cince europee, mentre in alto fischia la poiana. Il larice è specie eliofila, frugale e dal seme leggero, caratteristiche che lo rendono capace di colonizzare le aree libere da vegetazione arborea – ma che allo stesso tempo lo rendono meno competitivo in quelle dove sono già presenti altri alberi, soprattutto rispetto all’abete rosso. Per questo motivo, se vogliamo conservare la fauna legata a questa specie (e al suo “partner” ecologico, il pino cembro) può essere necessario regolare i rapporti competitivi, “facendo spazio” al larice e diradando gli esemplari delle altre conifere.
Regolare i rapporti di competitività tra gli alberi è uno dei principali strumenti che la gestione forestale può mettere in atto per promuovere la conservazione della biodiversità
La storia del bosco sulle montagne dei Lagorai
Siamo saliti ai 1.900 metri di quota nel cuore della Catena dei Lagorai, a pochi chilometri dal fondo valle della Valsugana, nel bosco gestito dall’associazione forestale Lagorai-Paneveggio, per vedere con i nostri occhi risultati del lavoro svolto. Il miglioramento paesaggistico è stato eseguito su un’area di 15 ettari grazie ai finanziamenti del piano di sviluppo rurale attivato dalla provincia autonoma di Trento. Gli alberi da asportare per fare spazio al larice, tutti di diametro inferiore ai 20 centimetri, sono stati attentamente selezionati e contrassegnati uno ad uno. A dimostrazione che questa attività non era mirata alla produzione di legno o a generare profitti economici, gli alberi tagliati sono stati trinciati o depezzati, e lasciati sul terreno in piccole cataste. E proprio in questi piccoli accumuli si sono potute sviluppare colonie di insetti che si nutrono di legno morto, e che hanno aumentato ulteriormente la biodiversità di questo ecosistema.
Oggi, a distanza di circa un anno dall’inizio dei lavori, le nuove radure create nel bosco vengono frequentate da molte specie come capriolo, cervo e camoscio, che negli ultimi anni hanno avuto vicissitudini alterne nel numero degli esemplari, ma anche da mammiferi più schivi come faina, martora e donnola. Tra gli uccelli si sente più spesso il tamburellare del picchio nero, e sui pini cembri che – insieme ai larici – hanno beneficiato dei nuovi spazi per espandere le loro chiome ci sorprende il gracidare allarmato del nocciolaia.
Dopo altri dieci minuti di cammino, il bosco si fa sempre più rado, e nelle sue aperture scorgiamo le cime delle montagne che circondano: i torrioni dolomitici, colorati dall’enrosadira. Dietro di noi, il bosco si erge ai nostri piedi, mostrandosi come una coperta multiforme di tutte le tonalità del verde a seconda della particolare specie vegetale, del suo stato di salute e della quantità di luce che la colpisce. Tutto ci trasmette una straordinaria sensazione di pace: ci sentiamo partecipi di un disegno ben più grande di noi, ma al quale possiamo contribuire con umiltà e con la nostra cura.
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