L’anno che sta per concludersi fa ben sperare per il futuro dell’energia solare. I dati globali sul fotovoltaico crescono, gli esempi positivi si moltiplicano. Sebbene resti molto lavoro da fare, seguire il sole ci manterrà sulla strada giusta.
Foreste urbane. La progettazione di città resilienti che può cambiare il mondo
Le città sono causa dei cambiamenti climatici ma anche la prima vittima dei loro effetti. Alberi e foreste hanno il maggior potenziale per creare città intelligenti.
con il contributo di Fabio Salbitano, Silvano Fares, Marco Marchetti, Antonella Andretta, Nicoletta Toffano e Giorgio Vacchiano
Il clima sta cambiando. E si sente, soprattutto in città. Con i loro comportamenti dissipativi e poco attenti alla conservazione delle risorse, le città sono causa dei cambiamenti climatici, ma anche la prima vittima dei loro effetti. Per ridurre la portata degli effetti dei cambiamenti climatici e aumentare la resilienza delle città, molte organizzazioni internazionali suggeriscono di adottare “soluzioni basate sulla natura”. Fra queste, le foreste urbane – che comprendono lembi di bosco, viali alberati, grandi parchi, orti urbani, giardini, ville storiche e verde di quartiere – hanno il maggiore potenziale di cambiamento del paradigma di “essere e costruire” città.
Ipertrofia urbana
La coltivazione e l’utilizzo di alberi al di fuori della foresta come risorsa per le comunità risale al Neolitico, quando le società umane iniziarono a trasformare le foreste del Mediterraneo in aree agricole. Anche nei sistemi “taglia e brucia”, era comune preservare alberi specifici per il loro valore spirituale o simbolico e fino all’inizio del secolo scorso, alberi, boschi e filari sono stati una parte intima dei paesaggi sia urbani che rurali (basti pensare ai cipressi in Toscana o ai pini di Roma). Nell’arco degli ultimi decenni le città hanno invece attraversato una fase di crescita strabordante. L’esempio dei Paesi Bassi, e della nostra Pianura Padana, è emblematico: territori relativamente vasti diventati un’unica integrazione strutturale e funzionale di realtà urbane. Le proiezioni vedono crescere ancora le città dell’Asia “Megalopolitana” e dell’America Latina, ma anche del continente considerato rurale per definizione fino a pochi anni fa: l’Africa. A livello globale, il 60 per cento dell’area che si prevede sarà urbana entro il 2030 rimane da costruire, e il 70 per cento degli umani abiterà in città entro il 2050.
Questa crescita senza precedenti esercita forti pressioni sull’ambiente, che vanno ben oltre i confini urbani. Le città coprono il 3 per cento della superficie terrestre ma rappresentano il 60-80 per cento del consumo globale di energia e il 75 per cento delle emissioni di carbonio del mondo. Le aree urbane, che crescono a un ritmo più rapido della crescita della popolazione, modificano sostanzialmente il clima locale e regionale attraverso l’effetto “isola di calore”, e riducono la disponibilità di risorse naturali, in particolare acqua, legno ed energia, a causa del consumo di suolo (2 metri quadrati al secondo!) e habitat. In più, la maggior parte delle future espansioni avverrà in aree a scarso sviluppo economico e capacità istituzionale. Questo potrebbe limitare le opportunità di attuare un’urbanizzazione “intelligente” e rendere i neo-cittadini più vulnerabili agli eventi estremi, esacerbare le diseguaglianze e i conflitti di interesse per l’uso del suolo, aumentare il degrado ambientale e deteriorare la sicurezza e la salute pubblica, soprattutto a danno dei settori più svantaggiati delle comunità.
Una brutta aria
È accertato che la deforestazione, la frammentazione ecologica e l’urbanizzazione sono corresponsabili del “salto di specie” della diffusione delle zoonosi, alle quali, dall’altra parte, siamo resi più vulnerabili dall’inquinamento urbano. Ma che l’aria delle città non sia particolarmente sana non è scoperta recente. Il 26 novembre 1948, una densissima nebbia iniziò ad avviluppare Londra e avvolse la città per sei giorni. Da allora, un’ampia letteratura scientifica ha indagato il ruolo dell’inquinamento nelle aree urbane (particolato, ozono, ossidi di azoto e di zolfo) sulla salute e la qualità della vita dei cittadini. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta sette milioni di morti premature all’anno da inquinamento nel mondo (550mila in Europa), un numero ben superiore ai decessi causati direttamente dal coronavirus. L’Agenzia ambientale europea stima per l’Italia circa 60mila morti premature all’anno per la sola esposizione a Pm 2,5. Dopo alimentazione scorretta, fumo, ipertensione e diabete, le polveri sottili sono il quinto fattore di mortalità nel mondo.
Le città, cause e vittime al contempo delle tre crisi del nostro tempo (climatica, sanitaria, della biodiversità), hanno la responsabilità morale, la capacità culturale, il potere politico ed economico per guidare la ricerca delle soluzioni.
Foreste urbane, connessioni basate sulla natura
Tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu, l’obiettivo 11 mira a “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”. E non è casuale che per fare questo ci si affidi alle foreste e agli alberi, sostituendo le “infrastrutture grigie” con quelle “verdi”. Le città, insomma, non possono sopravvivere senza foreste, ma devono poter contare su di loro sia per la mitigazione (rimpiazzando l’energia fossile con le rinnovabili e i materiali più clima-impattanti con materiali a base biologica) sia per l’adattamento. Aumentare il numero di alberi, tutelare la biodiversità urbana, contrastare l’impermeabilizzazione dei suoli sono i pilastri della progettazione di città smart e bio, fondate sulle foreste urbane e “scandite” dagli alberi e dalla vegetazione. Molte città del mondo hanno già iniziato a percorrere questa strada, per citarne alcune Melbourne, Vancouver, Singapore, Bogotà, Curitiba, Londra, Barcellona e Milano.
Spesso, però, queste iniziative restano chiuse all’interno dei confini urbani. Per riuscire in questa impresa le città non possono invece agire da sole, pensando solo al proprio territorio, ma devono invece costruire reti di habitat, collegarsi ai territori rurali ed eliminare i loro limiti interni, che sono sempre linee di ingiustizia e degrado. In definitiva, avere il coraggio di ampliare la prospettiva. Occorre cioè progettare le nuove “biocittà” e collegarle al resto del territorio. È questa l’idea di fondo del progetto World Park, il “Parco mondiale” proposto da Richard Weller, nata dallo studio dei “punti caldi” della biodiversità, delle 160mila aree protette del pianeta e dei siti Patrimonio dell’Umanità per l’Unesco. O del Pan-European ecological network, che si propone di connettere i corridoi verdi di tutta l’Europa. Ma la richiesta di mettere insieme un progetto che rispecchi l’interconnessione che domina il sistema socioecologico planetario può anche venire dal basso, dai cittadini, dalla ricerca, dai portatori d’interesse.
Dal vuoto urbano a Parco Nord Milano
Uno dei più importanti esempi di foresta urbana in Italia è il Parco Nord Milano, sorto al posto di un desolante vuoto di periferia ex-industriale tra Milano, Sesto San Giovanni, Cinisello, Bresso e Cormano. Non angolo di natura preesistente “scampato” all’urbanizzazione, dunque, ma uno spazio verde di circa 800 ettari creato ex novo nella zona a maggior densità abitativa d’Italia, grazie alla lungimiranza di amministratori, politici, urbanisti e ricercatori che, negli anni Sessanta, si resero conto che quegli spazi rimasti vuoti erano anche gli ultimi, prima della saldatura definitiva delle città.
Al suo interno, i boschi si alternano a prati, dolci colline, laghi, radure: chi ci entra per la prima volta, passeggiando tra i 40 chilometri di viali pedonali o pedalando sui 35 chilometri di ciclabili, fatica a credere che non un singolo pioppo, carpino, quercia o cespuglio di rosa canina esistesse fino a poco meno di quarant’anni fa, così come non esistevano i campi da bocce, i giochi per bambini, gli orti sociali, i campi da basket e molto altro ancora: un parco per vivere ha bisogno non solo di erba e piante ma anche di persone che lo frequentino, lo apprezzino e lo sentano proprio. Il Parco Nord è nato “avanti”, con una concezione del verde lontana anni luce dal “divieto di calpestare le aiuole” ma anche dal tipico giardino urbano che necessita di costante manutenzione.
O meglio, è calibrata ad hoc per una superficie così vasta, compresi i diradamenti programmati dei boschi, boschi che rappresentano il fulcro e anima di tutta l’operazione. Ogni anno, a partire dal 1983, è stato infatti messo a dimora un lotto di bosco, per un totale di più di 100 ettari di querco-carpineto. Creare da zero una vera e propria foresta non è impresa facile: le modalità di impianto sono state corrette e migliorate nel tempo, anche attraverso esperimenti ed errori, fino a creare un vero e proprio compendio di forestazione urbana, confluito poi nel progetto Life Emonfur, realizzato insieme a Regione Lombardia ed Ersaf e finanziato dalla Comunità europea. Una natura costruita, dunque, piantata albero per albero, ma una natura più “naturale” possibile. Nel parco non esistono luci artificiali, recinti o chiusure: questo ha fatto sì che divenisse uno snodo tra corridoi ecologici del nord Milano, percorrendo i quali sono ben presto arrivati anche gli animali. Oggi si contano decine di specie, tra mammiferi, uccelli, rettili, insetti e pesci, ed è un puro piacere osservare il volo dell’airone cinerino che plana rapido sul lago di Niguarda.
Indispensabile polmone verde in una delle zone più inquinate del pianeta, il Parco Nord svolge anche un ruolo urbanistico rilevante che non solo collega le città che si trovano lungo i suoi perimetri, ma che incentiva anche una mobilità dolce fatta di biciclette, di passeggiate da godere su percorsi protetti che scavalcano le arterie di traffico grazie a ponti e passerelle, “punti di cucitura” dove il territorio del parco è più frazionato e frastagliato, proprio perché “ritagliato” nella città metro per metro.
Dal punto di vista architettonico, il progetto, sebbene portato a termine in un periodo così protratto nel tempo, non ha mai perso di unitarietà e di coerenza grazie al suo progettista, quell’architetto Francesco Borrella che del parco è stato anche artefice e primo direttore e che ha messo la sua firma su un disegno dai tratti ben riconoscibili, dove i vuoti e i pieni si alternano con misura, dove nulla è stato lasciato al caso. Il Parco Nord Milano, diretto dal 2000 dall’agronomo Riccardo Gini, resta inoltre uno dei protagonisti del verde milanese. Il parco è diventato infatti il tassello fondamentale del progetto ForestaMi e per la realizzazione del nuovo Parco Metropolitano: un antico sogno, una cintura verde che dovrebbe abbracciare Milano unendo i parchi della Città metropolitana e creando nuovi corridoi ecologici tra di essi. Un sogno al momento sospeso, che aspetta di essere completato prima delle Olimpiadi del 2026 – di cui ha rappresentato un punto focale nella candidatura vincente.
Una strategia per l’Italia
Come nel caso del Parco Nord, il nostro paese può giocare un ruolo di laboratorio globale a cielo aperto. Dati recentissimi confermano che l’Italia è diventato un paese “forestale”: una traiettoria silenziosa, tracciata prima dalle politiche di rimboschimento del 19esimo secolo e poi dall’abbandono spontaneo o programmato dell’agricoltura e della pastorizia nelle aree interne. Oggi, grazie all’ulteriore spinta, determinata dalla realizzazione della Rete natura 2000, le aree protette in Italia coprono una vasta superficie del paese (il 20 per cento circa) di cui oltre metà coperta da boschi. Ma solo il 4 per cento delle aree protette interessa aree di pianura, prossime alle città o con elevata intensità di infrastrutture.
A scala nazionale, dunque, sarebbe fondamentale adottare un progetto con robuste basi scientifiche che coinvolga gli enti locali, il mondo della ricerca e delle professioni, le associazioni di categoria, il terzo settore. Il primo tassello è stato posto con la Strategia nazionale del verde urbano, “Foreste urbane resilienti ed eterogenee per la salute e il benessere dei cittadini” che ha fissato criteri e linee guida per la promozione di foreste urbane e periurbane coerenti con le caratteristiche ambientali, storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi. La strategia si basa su tre elementi essenziali: passare da metri quadrati a ettari, ridurre le superfici asfaltate, e adottare le foreste urbane come riferimento strutturale e funzionale del verde urbano.
Integrare la Strategia del verde urbano con la Strategia forestale nazionale in corso di preparazione può essere un grande esempio per l’Europa e il pianeta. E sull’integrazione urbano-rurale si concentra il dibattito post Covid-19, con voci che propongono l’addio all’urbanizzazione come modello e la valorizzazione degli spazi agrari: da “la campagna ci salverà”, il contropiede di Rem Koohlaas al Guggenheim di New York, alle richieste di Boeri, Cucinella, Fuksas, di far tornare la vita nei luoghi rurali e la crescita sostenibile nelle aree interne, fondamentali per il presidio dei servizi ecosistemici, nel segno dell’equità e del lavoro e tenendo a bada i modelli di predazione dei territori più fragili. L’idea è quella di sviluppare dunque una trama reticolare di connessioni boscate e corridoi ecologici tra aree protette, boschi ed altre aree naturali e semi-naturali su tutto il territorio nazionale, includendo le aree urbane come snodi di collegamento, a partire dalle quattordici città metropolitane.
Questo progetto può raccogliere e coordinare le iniziative più significative in corso (Banca degli alberi, decreto clima, appello per i 60 milioni di alberi e le iniziative locali di Napoli, Milano, Venezia, Torino, Prato, delle Regioni Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna). Si tratta di dare un nuovo ruolo agli ambiti presenti nelle nostre città: boschi naturali residui, impianti artificiali e rimboschimenti, piantagioni forestali e policicliche, aree abbandonate, semi-abbandonate o degradate, aree ex-industriali e siti contaminati dove il fitorimedio può aiutare il restauro ecologico, popolamenti forestali derivanti da fenomeni di rinaturalizzazione, aree verdi ricreative, aree d’inserimento ambientale delle periferie urbane, greenways e fasce boscate, ferrovie dismesse e fasce destinate alla progettazione di ciclovie urbane ed extraurbane, parchi urbani e periurbani, aree agricole e agroforestali a conduzione estensiva.
Le foreste urbane nelle biocittà
Un’idea semplice ma strategicamente complessa: creare una grande trama di foreste e connessioni ecologiche che unisca fisicamente e idealmente le aree urbane d’Italia con la grande struttura forestale e con le aree protette interne del paese. Un “Parco reticolare sistemico di alberi e foreste” multifunzionale e dominato da alberi, boschi, siepi, filari, radure, orti, campi, corsi e specchi d’acqua, ma anche foreste verticali, pareti e tetti verdi, soluzioni di bioingegneria, sistemi intelligenti “verdi e blu”, spazi verdi accessibili, che possono aiutare le città a diventare più sane, migliorando la qualità dell’aria, fornendo luoghi per l’esercizio fisico e favorendo il benessere psicologico; più sicure, rallentando il deflusso delle acque piovane e filtrando l’azione del vento, attenuando l’effetto “isola di calore” e contribuendo all’adattamento e alla mitigazione climatica; più piacevoli, fornendo spazio per attività ricreative, esperienze naturali ed eventi sociali e culturali; più ricche, offrendo opportunità per la produzione di cibo, medicinali e legno e generando servizi ecosistemici economicamente preziosi; più intelligenti, grazie alla tecnologia sofisticata degli alberi e del legno utilizzabili in ambito architettonico, strutturale e infrastrutturale; più belle, creando paesaggi diversi e mantenendo le tradizioni culturali; più eque e inclusive, garantendo queste opportunità a tutti i cittadini, e specialmente a chi è ai margini. Queste sono le biocittà: città che guardano al proprio futuro partendo dal fatto che sia l’ambiente a ospitare le città, e non il contrario.
Il rinascimento degli alberi
Possiamo pensare all’Italia, all’Europa come a una immensa orchestra. Gli strumenti sono le nostre città. Ma un’orchestra che altro è se non una foresta? Dai materiali (i “legni”, i minerali negli ottoni, le tracce animali degli archi e dei timpani), alla sintonia diffusa di relazioni per sé impercettibili fra strumenti, dagli accenti ritmici dei vibrati e dei pizzicati, all’integrazione continua e dinamica di onde sonore diverse, confluenti, divergenti, l’orchestra è metafora della foresta. La sua struttura è un pentagramma, il suo dinamismo il ritmo musicale. I cittadini devono diventare i suoi strumentisti, facendo partecipare alberi e foreste a un nuovo rinascimento italiano e recuperando il sapere che aveva portato al “bel paese”, oggi omologato e banalizzato ma che ancora conserva grandi riserve di diversità biologica e culturale, dall’immenso valore naturale, sociale, storico e narrativo.
I nuovi approcci alla pianificazione di area vasta, agricoltura di eccellenza e foreste potranno essere la barriera al consumo di suolo e ospitare nuovi posti di lavoro sostenibili. Servono strumenti di facilitazione economica, sociale, giuridica e contrattuale per la realizzazione della rete, per incentivare la connessione tra le aree verdi e le foreste urbane e creare infrastrutture verdi strategiche all’interno delle città e nelle aree di cintura. Servono indicatori per il monitoraggio dello stato di salute del bosco nelle zone urbane; serve attuare una governance integrata e partecipata.
Per tutto questo, dopo il successo del primo Forum delle foreste urbane di Mantova del 2018, stiamo lavorando a un nuovo centro di ricerca su questi temi in Italia, che possa fare da riferimento e stimolo in Europa: una scelta consequenziale al lavoro di ricerca svolto negli ultimi decenni e di grande significato per le nostre società future.
Piantare alberi, arbusti ed ogni altro tipo di piante in città è un gesto semplice, quasi banale: ma gestirli in modo sostenibile e socialmente inclusivo, conoscendo sempre meglio la formidabile potenzialità di questi “amici” verdi, rende possibile una progettazione che può cambiare il mondo.
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