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Francisco López. Lavoro con il suono per relazionarmi al mondo
Riconosciuto come una delle maggiori figure della sound art e della sperimentazione sonora contemporanea, Francisco López è tra gli antesignani del field recording. Una pratica che reinterpreta nelle sue composizioni, manipolando i suoni registrati in ogni angolo del pianeta per rimuovere qualsiasi riferimento temporale, spaziale e contestuale. Le fonti sonore di cui si nutre provengono
Riconosciuto come una delle maggiori figure della sound art e della sperimentazione sonora contemporanea, Francisco López è tra gli antesignani del field recording. Una pratica che reinterpreta nelle sue composizioni, manipolando i suoni registrati in ogni angolo del pianeta per rimuovere qualsiasi riferimento temporale, spaziale e contestuale. Le fonti sonore di cui si nutre provengono dagli ambienti più diversi, dalla natura incontaminata di foreste pluviali, oceani, deserti, ghiacciai antartici e venti della Patagonia fino ai rumori bianchi dei più densi agglomerati urbani.
Per quasi quarant’anni López, che è anche entomologo e professore di ecologia, ha sviluppato un proprio universo sonoro basato sull’ascolto profondo del mondo esterno, abbattendo i confini tra suoni industriali e ambienti sonori selvaggi.
Durante le sue performance “al buio”, l’artista spagnolo invita gli spettatori a indossare una benda per inibire ogni stimolo visivo, per potersi immergere totalmente nella fruizione sonora e lasciare al potere espressivo dei suoni il ruolo di guida in un percorso immaginativo.
Lo abbiamo incontrato a Villa Necchi Campiglio, Milano, in occasione del primo appuntamento con Scapes, un ciclo di lecture, workshop e performance interamente dedicato alla pratica sonora del field recording a cura dell’associazione culturale Plunge.
L’intervista a Francisco López
Qual è stato il tuo primo approccio alla registrazione sonora?
È stata un’avventura comune a molte persone che, in generale, hanno un interesse naturale per il suono. Quando all’epoca ho cominciato a registrare e ad ascoltare gli ambienti sonori, è stata un’esperienza istintiva, senza contesto, senza conoscenza della storia della musica sperimentale o l’influenza di altri artisti che lavoravano con i suoni. Mi incuriosivano e tuttora mi incuriosiscono gli aspetti sociali, la relazione che si instaura nella creazione sonora. Sono attratto dal suono come spazio, come definizione di tempo e come forma di interazione con l’ambiente. Quella da giovane, la ricordo come una relazione osmotica molto personale, emozionale e intuitiva.
Cosa ti spinge a fare quello che fai da quarant’anni?
La scoperta che esiste una differenza tra il mondo reale, vero, e quello interiore che si trova nelle registrazioni. Per me il suono registrato è anch’esso qualcosa di reale, ma è un altro tipo di realtà e non una sua rappresentazione. La questione più grande, rivelatoria e bella della relazione con il suono è il suono stesso, non la sua rappresentazione.
Quello tra realtà e rappresentazione è un tema filosofico molto dibattuto nell’ambito del field recording, per la sua diffusione in attività diverse come l’etnomusicologia, la bioacustica e la musica sperimentale (concreta, avanguardia, ambient)…
Il mio è un lavoro di composizione vero e proprio, anche se non utilizzo strumenti musicali o l’armonia. A me interessa creare un’esperienza sonora a se stante, un mondo di suoni autosufficiente, che non abbia la necessità di fare riferimento ad altri contesti. Tuttavia è normale, complesso e molto interessante il conflitto con i suoni generati da altri organismi, oggetti e situazioni non ideati da me, ma che fanno già parte del mondo, e con i quali devo imparare a collaborare. Lavorare con strutture sonore temporali e spaziali preesistenti stimola l’interazione e la comprensione del mondo, seppur in modo non esplicativo né rappresentativo.
Hai viaggiato in ogni paese e continente, registrando materiale per centinaia di editori e case discografiche. C’è qualche ambiente sonoro, tra quelli in cui ti sei ritrovato, che ti ha colpito o sorpreso più degli altri?
La foresta tropicale è stata un’esperienza davvero intensa, che mi ha cambiato. Da biologo, ho svolto anni di ricerca ecologica e biologica negli ambienti tropicali e l’esperienza di ascolto prolungato nella foresta è stata determinante per il mio gusto, pensiero e modo di concepire i suoni, la musica, le performance. La foresta tropicale è particolarmente musicale e naturalmente acusmatica (in riferimento all’assenza visiva delle fonti sonore). Lì si sentono tantissimi versi di animali e suoni diversi tutto il tempo, giorno e notte, ma non si capisce da dove provengono per via della fitta vegetazione. È un mondo di ascolti, fondamentale per la sopravvivenza delle stesse creature che lo popolano. Lavorandoci soprattutto di notte, è stato ancora più incredibile.
Nemmeno così silenzioso, come si potrebbe immaginare.
L’idea di natura come ambiente tranquillo, pacifico e silenzioso, mentre la città è colma di rumori è un concetto tipicamente occidentale, europeo. Ma l’ambiente tropicale non è così, la foresta è attiva 24 ore su 24 e i suoi rumori possono essere terrificanti. Se la tradizione musicale fosse nata e si fosse sviluppata in un habitat tropicale, il concetto di musica e la storia sarebbero stati diversi da come li conosciamo. Inoltre, è piuttosto comune associare i suoni degli ambienti naturali, come la foresta tropicale, alle immagini che vengono proposte in tv. Ma quasi tutti quei suoni che si sentono nei programmi televisivi e nei documentari sono postprodotti in studio, con l’uso di effetti, quindi sono artificiali.
Il musicista e studioso Bernie Krause, dopo 50 anni di ricerche, sostiene che i suoni della natura si stanno estinguendo. L’orchestra naturale sta perdendo i suoi strumentisti. Hai avuto modo di riscontrarlo anche tu?
Sì, il discorso purtroppo vale per la diversità, che si manifesta non solo con le specie organiche, ma anche con i suoni e altri aspetti. Il suono può fare da indicatore del cambiamento ambientale. Non sono molto d’accordo con la concezione antropomorfica per cui la natura debba essere vista come un’orchestra e, in generale, penso che tutte le manifestazioni di antropomorfismo nella natura siano poco utili o pericolose. Non dovremmo esportare la nostra visione musicale nella natura, semmai imparare noi dalla natura e importarne l’insegnamento nella ricerca sonora.
Come si fa a raggiungere un livello così alto di ricerca del suono, definito da alcuni profondo, assoluto, trascendentale?
Non bisogna immaginare il suono (soltanto) come una cosa immateriale ed effimera, cioè come proprietà di un’altra cosa o qualcosa che semplicemente si origina da una fonte, ma come un’entità a sé e allo stesso livello esistenziale delle altre cose. Un cane che abbaia, per me, è fatto da un cane e dal suo verso. Sono due entità distinte, ma che esistono allo stesso modo.
Esplorare la materia sonora in chiave ontologica e metafisica (il suono c’è in quanto esiste e consiste) ti porta a sostenere che è l’ascoltatore a produrre i suoni, non il compositore. Lo fai soprattutto dal vivo, nelle performance dove il pubblico è invitato a bendarsi per approcciarsi all’ascolto senza distrazioni o suggestioni visive. Come mai questa scelta?
È una questione tecnica, perché chiaramente senza vedere si ascolta meglio, e di ritualità. La benda sugli occhi ha una storia antica, con connotazioni positive e negative. Per me, significa accettare di partecipare a un’esperienza di ascolto collettiva peculiare, in cui la creazione della musica non è la composizione o trasformazione del suono, ma l’ascolto profondo, dedicato, interessato, artistico, musicale, spirituale. La creazione di musica è così una responsabilità individuale.
In base a cosa scegli le registrazioni da usare e processare durante una performance?
Avendo parecchio materiale registrato ed essendo questo molto vario, lavoro prima di tutto sullo spazio in cui si svolge la performance e con il sistema di suono specifico a disposizione. In questo senso, ogni mia esibizione è site-specific. Lavorare con i suoni considerandoli creature indipendenti, presenze fisiche che si muovono virtualmente nello spazio e da trasformare velocemente nello spazio (non nella fonte), è possibile solo sul posto e non attraverso le registrazioni. La tecnologia per farlo è semplice, mentre il processo decisionale è molto più complesso per le molte decisioni diverse da prendere in tempo reale in uno spazio specifico.
Quale ambiente sonoro stai esplorando o ti piacerebbe affrontare in questo momento?
Sto portando avanti un workshop in Sudafrica, al confine col Botswana, con 60-70 compositori, artisti sonori da ogni parte del mondo e persone interessate all’ascolto creativo, trasformativo della natura. Sono sette anni che ci lavoro, è diventato un luogo molto intimo e familiare per le mie registrazioni. Un altro progetto a cui tengo, cominciato nel 2000, è nel deserto australiano. Un ambiente sonoro enorme, totalmente diverso dalla foresta tropicale ma altrettanto interessante e ricco di contrasti. Inoltre, sto collaborando con dieci artisti in parallelo, ognuno con un approccio sonoro differente.
C’è un suono in particolare che ti fa paura?
Non tanto un suono, quanto una relazione semantica o simbolica che posso intrecciare con il suono, nel significato che gli posso attribuire.
Ti preoccupa il cambiamento climatico, sia come essere umano sia per il lavoro che svolgi?
La cosa più preoccupante per il clima è Donald Trump. È il potere nelle mani degli ignoranti, che non si curano di un problema così drammatico, urgente e quasi irreversibile. Iniziative individuali, locali e globali come lo sciopero per il clima vanno bene, ma servono a poco se, a livello politico, non si cambiano le persone che detengono il potere decisionale. Bisogna farlo prima che sia troppo tardi. Penso che l’arte e la musica, anche la mia, possano contribuire a suscitare una reazione poderosa contro questo sistema, senza dover dare spiegazioni o messaggi specifici, ma attraverso le sensazioni e le emozioni. Perché lavorare con il suono non è solo una questione musicale o filosofica, ma di relazione con il mondo.
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