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Intervista a Franco Battiato Partiamo da lontano. 25 anni fa lei si augurava il ritorno dell’era del cinghiale bianco, quella che per gli antichi Celti stava a significare l’età della conoscenza assoluta. Come la vede adesso, ci stiamo avvicinando, o no? Mah… stiamo fuggendo dalle zone spirituali, a rotta di collo! Però uno non
Intervista a Franco Battiato
Partiamo da lontano. 25 anni fa lei si augurava il ritorno
dell’era del cinghiale bianco, quella che per gli antichi Celti
stava a significare l’età della conoscenza assoluta. Come la
vede adesso, ci stiamo avvicinando, o no?
Mah… stiamo fuggendo dalle zone spirituali, a rotta di
collo! Però uno non dispera, perché a volte proprio
quando sembra tutto perduto, tutto si ritrova in un secondo. E’
questa, la forza di questo universo.
Veniamo al titolo di questo ultimo album, “Dieci
Stratagemmi”. E’ ispirato ai 36 Stratagemmi, antico testo cinese
che può essere visto su diversi piani di lettura, sia come
strategia militare, che come strategia per conoscere se
stessi…
Ecco, a me interessa questa seconda lettura,
naturalmente…
Sono forse stimoli per ampliare le percezioni sulle
situazioni?
Ero in cerca di un titolo e capitò che Gianluca Maggi
(che ha curato un’edizione di questi 36 Stratagemmi), mi
invitò a una conferenza in Romagna, dove insegna lavora e mi
regalò questo libro.
Trovai consequenziale intitolare il disco “Dieci Stratagemmi”,
perché in fondo le canzoni sono stratagemmi.
Un lavoro con pianoforte e computer
affiancati?
Il pianoforte lo uso se ho bisogno proprio del suono del
pianoforte. Di base, lavoro all’interno del computer. Da solo, io e
il computer.
Com’è nata la collaborazione con i Krisma,
storico gruppo degli anni ’70-80 a metà tra il punk e la new
wave, formato da Maurizio Arcieri e Cristina Moser e ancora attivo
in ambito techno?
E’ stato molto divertente, ci siamo rincontrati durante la
lavorazione del mio film, Perduto Amor. Ebbi la buona idea di far
fare a Maurizio Arcieri la parte che lui fece negli anni Sessanta,
come se questi 40 anni non fossero passati.
Quando poi ero già in chiusura del disco, mi vennero a
trovare in sala di registrazione, per farmi sentire del loro
materiale. Mi piacquero. Presi tre sequenze, ci lavorai al
computer, e poi con Manlio abbiamo fatto tre pezzi, insieme con i
Krisma.
Per quanti anni ha vissuto a Milano?
Vi ho vissuto dal ’64 all’88: ventiquattro anni. Ma la
considero sempre casa mia. Non m’immagino di venire a Milano e
andare in albergo.
Dopo quest’esperienza, cosa ne pensa di questa
città, in relazione alla qualità della
vita?
A me è sempre piaciuta, anche se qualcosa si è
deteriorato anche a Milano: perché tutto in Italia, è
peggiorato, il traffico, l’educazione… Tutto è
peggiorato. Ma Milano è una città che ti dà la
possibilità anche di un anonimato che è piacevole,
una città che si fa gli affari suoi, di gente che pensa al
lavoro e non a spettegolare o a occuparsi degli affari degli
altri…
Perché nei suoi album canta spesso in lingue
diverse, fra cui l’inglese, ma non solo?
Perché sono un viaggiatore. E’ il fascino delle lingue,
non solo l’inglese (che non è quella che mi affascina di
più), soprattutto le lingue di ceppo ungarico, le varie
lingue europee… Mi intriga molto il fatto che in ogni lingua
si possano dire delle cose adatte solamente a quella e dette bene
in quella lingua.
E poi, diceva bene una mia amica scrittrice, “bisogna imparare
la lingua dei padroni”!
Ha mai fatto un album tutto in un’altra
lingua?
In spagnolo. Sì, l’ho fatto, negli anni passati. Fu un
direttore artistico, molto simpatico, all’epoca lavorava alla EMI
americana, appassionato di ciò che facevo. Stavo incidendo
un disco alla Capitol Town di Los Angeles. Venne a trovarmi e mi
disse “tu non esci da questa sala se non mi canti un disco in
spagnolo”, io risposi “non voglio cantare in spagnolo, non
m’interessa”, trovavo la lingua, come dire, ridicola. Poi ho dovuto
ricredermi, ho fatto auto da mè. Anche se a me “busco un
centro de gravidad” non mi veniva…
Fu un boom in Spagna e nei Paesi sudamericani. Pazzesco. Gli
devo essere grato.
E’ vero che lei è contrario dalla sparizione
del latino dalla liturgia?
Certo. Il mistero di una lingua che non conosci bene si perde.
La liturgia in sé perde fascino, diviene più
quotidiana, si immettono vocaboli comuni che ti riportano a una
confidenza che abbassa il livello del sacro.
C’entra Beethoven?
Nella parte centrale del film.
Com’è nato l’incontro con Alejandro
Jodorowsky?
L’ho cercato, stava presentando un libro in Italia. Cercavo
non qualcuno che facesse la caricatura di Beethoven. Cercavo una
personalità, un’eccellenza, non qualcuno che imitasse
Beethoven.
Cosa ammira di Jodorowsky?
La personalità, la sua ricerca, il suo talento. Nei
suoi film, che piaccia o no, ha espresso qualcosa di diverso.
Già nel 1979, nella canzone Magic Shop,
ritraeva con un certo sarcasmo la ricerca di forme di
spiritualità orientali in termini “da consumo di massa”. A
partire dagli anni ’90 un fenomeno tornato, in un certo senso, col
nome di New Age.
Pericolosissimo…
È cambiato qualcosa?
Uno non deve perdere tempo con le cose che non gli sono
affini. Ognuno deve andare avanti per la sua strada, senza
occuparsi e senza criticare le scelte altrui, affari loro,
no?
Uno può dire “io non appartengo a quell’area, non
m’interessa questo genere di manifestazione”.
Mi è successo tante volte nella vita di andare
d’accordo con un ateo e avere problemi con un credente. Non
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ultimamente. È uscito con un
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