Profilazione razziale, xenofobia nel dibattito politico e omofobia nel report dell’Ecri. Tra le sue richieste c’è quella di rendere indipendente l’Unar.
Frank Westerman. Arginare la violenza con la parola è ancora possibile
Frank Westerman, il reporter di guerra ha scritto un libro che indaga sulla professione del mediatore con i terroristi, senza chiudere la porta. In questa intervista ci spiega il valore dell’empatia e della parola.
Le parole come antidoto alla violenza. O meglio le parole “buone”. Il reporter di guerra olandese Frank Westerman si interroga nel suo ultimo libro I soldati delle parole, edito da Iperborea, sulla forza del dialogo dagli anni Settanta a oggi. Lo scrittore, nato nel 1964 a Emmen, sceglie come protagonisti della sua inchiesta quei poco noti professionisti che, in tempo di guerra fredda e post-coloniale, hanno cominciato a elaborare un approccio per fermare i terroristi. Fino ad oggi li hanno chiamati “negoziatori”, per lo più psichiatri che in varie parti del mondo sono stati inseriti negli organi di polizia e dell’esercito.
Westerman, in un pomeriggio autunnale assolato a Milano, ci ha spiegato che “sarebbe meglio definirli mediatori”. Non devono, infatti, contrattare o simpatizzare con il nemico, ma mettersi nei suoi panni. Parlare il suo linguaggio. Scovarne l’ultimo brandello di umanità.
Cosa fa il mediatore e a cosa serve la forza dell’empatia
L’approccio più efficace per disinnescare la violenza sarebbe quello dell’empatia, come nel film del 1998 Il negoziatore interpretato dall’attore Samuel Jackson, citato nel libro. La finzione cinematografica, infatti, ha indagato spesso sull’argomento anche in tempi recenti.
Nella serie tv targata Netflix Mindhunter, ad esempio, si narra la genesi dell’unità comportamentale dell’Fbi (Federal bureau of investigation), i padri dei “criminal minds”, con un intuitivo poliziotto ispirato al celebre negoziatore di ostaggi John Edward Douglas che tenta di entrare nella mente, nelle emozioni e nella storia personale dei serial killer.
Nel film Arrival di Denis Villeneuve, i nemici sono degli alieni giganteschi. Nessun agente riesce a stabilire un contatto finché una professoressa di linguistica, interpretata dall’attrice Amy Adams, adotta un approccio fisico, non verbale: la sua mano spalancata in segno di “accoglienza” sulla protezione di vetro che la divide dagli extraterrestri.
La vita di un mediatore
Westerman parte dalla sua storia personale. È un ragazzo quando dei terroristi indipendentisti delle Molucche indonesiane (ex colonia olandese) compiono una serie di attentati nei Paesi Bassi, a pochi passi da casa sua. Negli anni Settanta dirottano un treno, rapiscono ostaggi, assaltano istituzioni, uccidono. Fra loro c’è anche un ragazzo del suo liceo.
Quarant’anni dopo, quel ragazzo è un reporter che ha conosciuto l’orrore della guerra nei Balcani e in Cecenia, alla ricerca di attentatori, sopravvissuti, familiari delle vittime e negoziatori. Non solo, si cala nel presente frequentando un corso per mediatori, partecipando a simulazioni di rapimenti e dirottamenti, incontrando un veterano degli accordi di pace, mentre l’Europa è sconvolta dagli attacchi a Parigi contro Charlie Hebdo e il Bataclan, Bruxelles, Nizza, Berlino. Da ex inviato a Mosca, ricorda il massacro dei bambini di Beslan e il metodo russo della “trattativa zero” che ha sempre avuto un costo pesantissimo in termini di vite umane.
Più volte dubita della forza del dialogo, senza mai rinunciare a scrivere e investigare. Come un mediatore, un giornalista non può perdere la fiducia nelle parole e nell’ascolto dell’altro, per quanto diverso perché “la storia utile è quella che mostra al lettore altri punti di vista”, dice Westerman dopo un lungo ragionamento. “Non si può mediare con tutti, come con chi è completamente folle. I terroristi, però, non sono tutti pazzi. Hanno diverse facce, da sempre”.
In questa intervista il freelance, che è stato nelle zone più calde del mondo, parla con familiarità e semplicità. Lascia trasparire ammirazione e tenerezza per il suo amico e traduttore a Srebrenica, per il quale ha dovuto “negoziare” la vita. I suoi occhi si accendono quando ribadisce la forza della penna. Sorride spesso, quasi per rassicurarci sull’utilità dell’informazione. Il mediatore empatico del suo libro e il grande inviato in carne e ossa sembrano assumere le stesse sembianze. Come due facce di una stessa medaglia nel gioco della vita.
Il negoziatore e il giornalista hanno in comune le parole, l’ascolto, il linguaggio non verbale fatto di sguardi, posture. I mezzi del mestiere. Con tutti i distinguo, anche il giornalista può avere l’obiettivo di disinnescare la violenza?
Nel libro I soldati delle parole mi chiedo cosa sto facendo, qual è il mio ruolo? Ebbene, sto scavando per cercare i fatti. Ma cosa sono i fatti, perché ne abbiamo bisogno? Perché sono il materiale grezzo per ogni negoziazione, dialogo, dibattito, ragionamento. Sono convinto che la nostra offerta informativa – se di qualità – venga riconosciuta dal lettore. Il lettore sa quando una notizia è falsa o spazzatura. Lo sa. Anche il pubblico ha delle responsabilità. Ho grande stima del lettore e non posso trattarlo come uno stupido.
In una società individualistica, post-consumistica, si legge meno, si è meno interessati agli altri, al proprio vicino come a cosa accade sul Pianeta.
Quando ho scritto L’enigma del lago rosso, sui misteriosi decessi in un’unica notte di duemila persone e di tutti gli animali della valle di Nyos, in Camerun, ho capito che i fatti non sono esseri viventi, ma morti. Le storie, invece, vivono, evolvono, si moltiplicano, mutano. Ognuno di noi potrebbe raccontare una storia diversa sullo stesso fatto. Ma alla fine la storia più forte, appassionante, straordinaria prevale su quella più debole, complessa, noiosa, basata sui fatti. La storia utile, invece, è quella che mostra al lettore altri punti di vista.
Nel suo ultimo libro l’empatia accomuna i vari negoziatori olandesi, soprattutto psichiatri che dagli anni Settanta hanno fatto i conti con i terroristi cristiani originari delle Molucche indonesiane.
Sì. Il nemico non deve esserti simpatico, ma attraverso l’immaginazione puoi metterti nei suoi panni. Questa è l’empatia. Favorisce la convivenza. Ti aiuta a capire perché i rifugiati scappano.
E arrivano in Europa. Nel film Arrival di Denis Villeneuve gli alieni approdano in modo spaventoso sulla Terra. Anche nella finzione cinematografica, la negoziatrice, docente di linguistica, riesce a comprenderli attraverso l’empatia.
Nel mio libro racconto che negli ultimi 40 anni le donne non sono state impiegate come negoziatrici. Però, quando mi sono iscritto all’Accademia di polizia di Ossendrecht sono state assunte alcune donne. Il mio esame è stato giudicato da una donna. Ed è vero. Servono approcci diversi a seconda delle situazioni, della cultura del terrorista. Verbali e non verbali. Si può anche semplicemente ascoltare o restare in silenzio ad aspettare.
Qualcosa sta cambiando. Oggi qual è ritenuto il miglior approccio contro i terroristi?
Non puoi sempre parlare a un attentatore suicida. Il nuovo fronte è la strada o una classe scolastica. ‘Negoziatore’ non è neppure più la parola giusta perché indica una contrattazione, un accordo, un affare. Il termine ‘mediatore’ è più appropriato, perché suggerisce un dialogo. È importante prevenire la radicalizzazione parlando con gli studenti di questi temi. Bisogna insegnare che quando si blocca il dialogo, si spegne l’umorismo. Se perdi l’ironia non sai più ridere e dubitare di te stesso. Diventi rigido, ‘talebano’. Alcuni ragazzi potrebbero diventare dei terroristi un giorno. Non possiamo saperlo.
Come nel 1978 il suo ex compagno di liceo, cresciuto in una famiglia originaria delle Molucche.
Sì, partecipò a un commando suicida. Nel 1978 uccise delle persone prima di essere catturato. Quando gli chiesero se era dispiaciuto, disse sì. Anzi: “Sono dispiaciuto perché non mi avete ucciso”. Voleva solamente uccidere e morire. Non gli importava delle vittime. I terroristi hanno più facce. Alcuni sono problematici. Nei movimenti terroristici organizzati c’erano degli psicopatici. Altri sono razionali. Alcuni inseguono una causa, altri no. La maggior parte dei dirottatori molucchesi era cristiana. Leggeva la Bibbia prima delle azioni terroristiche. Oggi si sente il bisogno di dire che sono tutti pazzi, ma non è così. Bisogna arrivare fino alle radici delle loro azioni, capire perché lo fanno.
Le cause possono essere varie. Gli affiliati dello Stato Islamico che hanno agito in Europa sono stati definiti giovani nichilisti, attratti dalla violenza come i membri delle gang messicane o i protagonisti di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. Anche i ragazzi delle Molucche avevano problemi di integrazione?
Non so se si può parlare di integrazione fallita per i molucchesi. Gli è stato dato ciò che chiedevano. Non erano rifugiati, né migranti economici, ma presero degli ostaggi! È una storia che ha dell’eccezionale.
Ma i terroristi, come quelli che agiscono in Europa, appartengono alla seconda generazione di migranti.
Sì, è vero. I genitori sono arrivati negli anni Cinquanta. Questa è una similitudine. Il ghetto non va mai bene. Vivere insieme richiede un’integrazione formale, non un’assimilazione.
In Europa si sta cercando un approccio adeguato alle diverse tipologie di terroristi?
Dalle stragi di Charlie Hebdo a quelle del Bataclan, l’allora presidente francese François Hollande ha reagito nel modo sbagliato, andando subito in tv dicendo “li distruggeremo, siamo in guerra”. Adottò un approccio più vicino a quello russo: non si tratta con i terroristi. Il rischio di questa scelta è perdere i valori che vuoi difendere. Sarebbe molto meglio prediligere il messaggio intelligente e sensibile del libro Non avrete il mio odio del giornalista Antoine Leiris, che al Bataclan ha perso sua moglie.
Giornalisti, mediatori, psichiatri, linguisti. Tutti gli esperti di comunicazione, forse, possono contribuire a un mondo più democratico e pacifico. A questo punto della sua storia crede ancora nel potere positivo delle parole?
In effetti il libro comincia da una quasi-perdita della fede nel potere delle parole. Come giornalista ho raggiunto quel punto e mi sono chiesto se davanti agli attacchi terroristici in Europa come altrove, le bombe e i proiettili fossero più efficaci per cambiare le menti e gli atteggiamenti della gente. Quando la redazione di Charlie Hebdo è stata attaccata ero a metà della scrittura del libro. Sono andato a prendere mia figlia a scuola e desideravo esprimerle il valore della penna, ma mentre glielo spiegavo ho dubitato. Posso ritornare a credere nella forza delle parole, del dialogo, degli scritti? Come posso farlo? Perché lo devo fare?
Quando sono cominciati i primi dubbi?
Nei Balcani. Ho scritto ampiamente di Srebrenica, di come i caschi blu olandesi non fossero stati in grado di proteggere i bosgnacchi. Era anche una storia olandese.
L’11 luglio 1995 più di ottomila uomini e giovani bosniaci musulmani vengono trucidati dalle truppe di Ratko Mladić. Una corte olandese ha giudicato corresponsabili del genocidio i caschi blu olandesi. Come si sentiva quando raccontava le violenze mentre accadevano e a cui nessuno credeva?
Non riuscivo a lavorare. Non volevo mettere a rischio la mia vita. Sono stato catturato due volte, mentre cercavo di fuggire. Potevano uccidermi proprio perché ero un reporter. Quando sono andato in Cecenia, furono decapitati quattro stranieri, tre britannici e uno neozelandese. Chiamai il mio giornale, dicendo ancora che non potevo lavorare. Potevo essere rapito, ucciso. Ho percepito la sconfitta e la vittoria della violenza.
Le è capitato di dover negoziare per salvarsi la vita?
Più che la mia, quella del mio traduttore in Bosnia. Mi aveva aiutato a entrare a Srebrenica e quando sono uscito dall’enclave qualcuno ha denunciato che io ero stato lì dentro. La mia copertura era fallita. Avevano scoperto che ero stato aiutato da un gentilissimo cinquantenne, pacifista, vegetariano, guidatore, traduttore: un mio amico.
Il generale Momi Ernicolich, che oggi sta scontando una pena di 27 anni all’Aja per crimini contro l’umanità, un giorno mi ha detto: “Non so cosa fare con voi”. Ci ha lasciato soli, senza chiavi dell’auto. Dopo una mezz’ora è arrivata una banda di giovani paramilitari. Ci hanno circondato. Io avevo 28 anni. Il mio amico mi ha implorato: “Frank fai qualcosa!”. In queste situazioni non puoi mai sapere come puoi reagire. Ho visto un’auto arrivare al checkpoint e mi sono lanciato verso il guidatore per chiedere aiuto. Ce l’abbiamo fatta. Adesso il mio amico vive in Canada e fa il camionista.
Molte ragioni possono scoraggiare un giornalista, ma alla fine lei non ha mai smesso di scrivere…
Penso che la questione del buon giornalista sia anche molto individuale. Vari punti del Pianeta sono stati dimenticati dai mezzi d’informazione. Già nel 1999, in Cecenia, non c’erano le televisioni e i giornali più importanti. Ricordo, oltre a me, solo l’inviato del Moscow Times. E nessun reporter indipendente era presente in quell’inverno terribile di Grozny, durante i bombardamenti.
Nella foto di copertina un negoziatore della polizia anonimo a De Punt, Paesi Bassi, nel secondo giorno di dirottamento di un treno da parte dei terroristi originari delle Molucche. 1977
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