Centomila persone alla manifestazione di Libera! per le vittime della mafia. L’abbraccio tra don Ciotti e Antonio Decaro: “È la tua vita che parla”.
Chi sono i fratelli Graviano, i boss mafiosi mai pentiti
Arrestati nel 1994, i fratelli Graviano sono implicati nelle più gravi stragi mafiose. Da allora, non hanno mai collaborato con la giustizia.
Due lampioni illuminano l’asfalto pieno di crepe e buche, che si perde nel buio. Non ci sono marciapiede: la strada, buona per farci passare a malapena un’automobile, finisce dove cominciano le case. Palazzine basse, in alcuni casi c’è solo il piano terra. Muri maculati dall’intonaco mancante, porte in metallo rigate dalla ruggine. Saracinesche, fili della luce sospesi, antenne piegate su tetti di amianto. Anonimato e silenzio. È qui, tra asfalto rattoppato e panni stesi alle finestre, che sono cresciuti due ragazzi allora ventenni. I cui nomi ancora non sono finiti sui giornali: i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.
A Palermo nel 1982 erano in corso due guerre
È buio, prima dell’alba del 7 gennaio 1982, lungo il vicolo Chiazzese, nel cuore del quartiere Brancaccio, a Palermo. In corso ci sono due guerre. La prima contrappone la “nuova mafia” dei corleonesi Totò Riina, Giovanni Brusca , Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella alla “vecchia mafia” di Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate, Giuseppe Di Cristina, Giuseppe Calderone.
Palermo, negli anni Ottanta, è in buona parte fuori dal controllo dello stato. La mafia, divisa in famiglie (mandamenti) controlla il territorio: gli affari illeciti, a cominciare dal traffico di droga, e quelli leciti, necessari per riciclare il denaro. Dall’edilizia al commercio, dalle industrie al turismo. La mafia è infiltrata ovunque, nelle istituzioni, tra le forze dell’ordine, nei palazzi di giustizia. È uno stato parallelo, che sul territorio dà lavoro, elargisce favori, aiuta i candidati ad essere eletti, distribuisce (a modo suo) ricchezza. E per questo non è neppure unanimemente mal vista dalla popolazione, una cui porzione non indifferente — un po’ per paura, un po’ per interesse — fa finta di non vedere. E quando vede, garantisce omertà.
A guidare i mafiosi c’è la brama di potere, ma c’è anche la volontà di accumulare denaro. E se fino a un certo punto la spartizione della torta ha accontentato tutti, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta la situazione cambia. I corleonesi pretendono il controllo totale dei traffici e del territorio. E se lo prendono.
La seconda guerra che è in corso a Palermo è invece quella che contrappone la mafia, tutta, allo stato. A gennaio del 1979 viene ucciso il giornalista Mario Francese. Il 9 marzo il segretario provinciale della Democrazia cristiana, Michele Reina. Il 21 luglio il capo della squadra mobile di Palermo, il poliziotto Boris Giuliano. Il 25 settembre muore ammazzato a colpi di carabina il giudice Cesare Terranova, assieme al maresciallo Lenin Mancuso, che lo stava scortando.
L’omicidio del padre dei fratelli Graviano
Il 6 gennaio del 1980 muore crivellato di colpi il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La notte tra il 3 e il 4 maggio ammazzano il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, comandante della compagnia di Monreale, mentre camminava con la moglie Silvana e la figlia di 7 anni in braccio, Barbara, in un giorno di festa. Il 6 agosto fanno fuori il magistrato Gaetano Costa, quello che emise i mandati di cattura contro gli uomini del clan degli Spatola, degli Inzerillo e dei Gambino, che i suoi colleghi si rifiutavano di firmare. E così via. Fino al 29 luglio del 1983, quando ammazzano il giudice Rocco Chinnici.
Poliziotti, carabinieri, giudici, rappresentanti delle istituzioni. Chiunque lavori contro gli interessi dei mafiosi finisce nel mirino. E spesso viene premuto il grilletto. “Palermo come Beirut”, titolano i giornali il mattina seguente, alludendo alla capitale libanese, in preda alla guerra civile.
I fratelli Graviano sono ancora giovani, ma sanno perfettamente quale contesto li circonda. Anche quel 7 gennaio 1982, nell’angustia del vicolo Chiazzese, quando un uomo scende le scale di casa. È un imprenditore di successo. Mafioso. Dirige una società immobiliare, la Emiro Srl. Nota, in vista, di successo, chiacchierata. Si chiama Michele, e ha quattro figli: Benedetto è il primo, Nunzia l’ultima. In mezzo loro: Filippo, Giuseppe Graviano. I più arrembanti, i più pronti al grande salto.
La vendetta e l’ascesa di “Madre natura”
Michele Graviano non sa che quelli saranno i suoi ultimi passi. Anche lui è una vittima designata della prima delle due guerre: a premere il grilletto è Gaetano Grado, uomo di fiducia di Bontate. È lui stesso ad auto-accusarsi del delitto: dal 1999 ha deciso di collaborare con la giustizia, vuotando il sacco. Grado, nel 1982, è uno dei sopravvissuti della “vecchia mafia”, assieme a Totuccio Contorno: quelli che facevano capo a Stefano Bontate, ucciso il 23 aprile 1981. La “vecchia mafia” dei “palermitani”, appunto, contro la “nuova” capeggiata dai corleonesi. La “vecchia mafia” che, ormai decimata, cerca vendetta nelle strade di Brancaccio. Più per sete di sangue e di ritorsione — a Grado era stato ucciso il fratello — che per tentare di riaffermare la propria presenza nel quartiere, cosa che appare già impossibile.
Dopo l’uccisione di Michele Graviano è il commissario Ninni Cassarà che apre per primo il fascicolo che porta il suo nome. Vi trova intrecci, legami, soldi che vanno e soldi che tornano. Indaga, scava. Il poliziotto viene ammazzato tre anni dopo, il 6 agosto del 1985, mentre rientrava dalla questura a casa, in via Croce Rossa 81.
Nei mesi che seguono la morte di Michele Graviano, i corleonesi pensano che, in realtà, ad ucciderlo sia stato Contorno. Ma sanno anche che Grado è rimasto fedele alla vecchia guardia. Parte così la contro-vendetta. E, nel dubbio, si colpiscono entrambi con vendette trasversali: muoiono Michele Jenna, socio in affari del sicario di Contorno (che poi perderà anche l’amico di sempre Giovanni Di Fresco), e Francesco Paolo Teresi, fratello del cognato di Grado (che perderà poi il cugino Antonino).
I due omicidi non placano però l’ira di Filippo e Giuseppe Graviano. I due giovani puntano a scalare le gerarchie ed ad entrare nelle grazie della nuova mafia. Soprattutto Giuseppe, soprannominato in breve “Madre Natura”. Perché lui “a tutto provvedeva”, in un territorio nel quale a latitare era, come detto, lo stato. È il terzo per età ma il primo per ambizione. I due, a partire dal 1990 saranno reggenti del mandamento palermitano di Brancaccio-Ciaculli, al posto del boss Giuseppe Lucchese (che era stato arrestato). Una consacrazione, con la benedizione di Totò Riina.
L’arresto di Riina, il “summit” a Santa Flavia e la stagione stagista
Quando quest’ultimo fu arrestato, nel gennaio del 1993, la nomenclatura verticistica — ma pur sempre costituita da capi-famiglia ben presenti e potenti sui loro territori — è decapitata nel suo vertice. I boss in libertà sono però ancora molti: c’è Bernardo Provenzano, che di Riina riceverà l’eredità del comando. Ci sono Cosimo Lo Nigro, Brusca, Bagarella, Antonino Gioè, Giacchino La Barbera. C’è il trapanese Matteo Messina Denaro (unico non palermitano ammesso). E c’è proprio lui, Giuseppe Graviano, neanche trentenne.
I capi mafiosi, con Riina ormai dietro le sbarre, si riuniscono a Santa Flavia, un comune di qualche migliaio di abitanti a meno di 20 chilometri da Palermo, in riva al mare. Dall’altra parte del Tirreno, l’Italia politica trema sotto i colpi dell’inchiesta Mani Pulite. È il tempo in cui crollano le nomenclature, si sgretolano i partiti. I leader politici sfilano nel processo al manager Sergio Cusani per la maxi-tangente da 150 miliardi di lire pagata dal gruppo Enimont un po’ a tutto l’arco parlamentare: i più balbettando di fronte alle domande del pubblico ministero Antonio Di Pietro. L’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi si presenta alla Camera e invita i colleghi che possano giurare di non aver mai sentito parlare di transazioni opache nei loro partiti ad alzarsi e dirlo. Nessuno dei 630 deputati ha il coraggio di farlo. La sfiducia nella classe politica, da parte degli italiani, non è mai stata così grande. Crolla la cosiddetta “prima Repubblica” e l’Italia si trova di fronte l’ignoto.
La strage di via D’Amelio e l’attentato a Maurizio Costanzo
A Santa Flavia, i partecipanti al “summit” della mafia sanno che il paese è debole, vulnerabile. E decidono l’impensabile: è qui che nasce la strategia stragista di Cosa Nostra. Filippo e Giuseppe Graviano, prima di essere arrestati nel 1994, riescono ad inanellare una serie impressionante di delitti, tra quelli eseguiti materialmente o ordinati. Giuseppe, che sta scontando l’ergastolo nel carcere di Terni, senza essersi mai pentito (come il suo mentore Riina) è stato accusato da una serie di pentiti di aver premuto il pulsante del telecomando che il 21 luglio del 1992 fece saltare in aria una Fiat 126 imbottita di tritolo a via D’Amelio, non appena il giudice Paolo Borsellino era sceso dall’auto per andare a trovare la mamma. Con lui moriranno i membri della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
La furia mafiosa si scaglia quindi contro il patrimonio dello stato. Nel 1993, i corleonesi organizzano una serie di attentati dinamitardi: il 14 maggio si tenta, invano di uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, in via Ruggero Fauro a Roma, reo di aver ospitato a più riprese il giudice Giovanni Falcone in trasmissione. E, assieme al collega Michele Santoro, di aver organizzato delle “maratone anti-mafia” quasi a reti unificate.
L’attacco al patrimonio artistico: Firenze, Milano e Roma
il 27 maggio un’autobomba imbottita con quasi 280 chilogrammi di tritolo esplode in via dei Georgofili, a Firenze. Obiettivo: colpire la Galleria degli Uffizi e il Corridoio vasariano. Muoiono cinque persone, tra le quali una neonata e una bimba di nove anni. I feriti sono 48.
La sera del 27 luglio un’altra automobile viene fatta saltare in aria in via Palestro, a Milano, davanti alla Galleria di arte moderna. Muoiono tre pompieri, un agente di polizia e un migrante marocchino che dormiva su una panchina. Neanche un’ora dopo altre due bombe deflagrano a Roma: a mezzanotte e tre minuti a piazza di San Giovanni in Laterano, di fronte alla Basilica di San Giovanni; cinque minuti dopo accanto alla chiesa di San Giorgio in Velabro. Per puro caso non ci sono morti, ma si contano ventidue feriti.
L’assassinio di don Pino Puglisi, il prete che si era ribellato
I fratelli Graviano sono stati considerati mandanti di tutti gli attentati di quel tragico 1993. Compreso il delitto efferato nel quale perse la vita padre Pino Puglisi. Un sacerdote di strada, che la strada la ripuliva. Era il parroco della chiesa di San Gaetano, nel cuore di Brancaccio. Non perdeva occasione per ricordare ai suoi fedeli che alla mafia c’era un’alternativa. Che non si poteva accettare quello scempio. Che occorreva ribellarsi.
Il 15 settembre Puglisi stava rientrando a casa, in piazzale Anita Garibaldi. Erano le 20:40. Era il suo compleanno: 56 anni. Don Pino era sceso dalla sua Fiat Uno bianca ed era quasi al portone quando qualcuno uno dei due sicari lo chiamò: “Padre, questa è una rapina”. Ma il sacerdote sapeva benissimo che non era così: “Vi stavo aspettando”, rispose. Da dietro, gli venne sparato un colpo di pistola alla nuca.
La vita nel lusso, e senza nascondersi, dei fratelli Graviano
Ma a stupire ci sono numerosi altri fatti, circostanze. I fratelli Graviano erano diversi dai Riina e dai Provenzano. Quest’ultimo, quando fu arrestato, viveva in una casa anonima, come fosse una persona qualunque. Filippo e “Madre natura”, invece, prima di finire in manette frequentavano boutique, hotel e ristoranti di lusso. Non lesinavano spese per vacanze, vestiti. E lo facevano lontano da Palermo: a Omegna, sul lago d’Orta, in Piemonte. Si sentivano sicuri: uscivano di casa a volto scoperto, facevano shopping. Non facevano la vita da latitanti.
Nel suo saggio “I fratelli Graviano”, il giornalista Salvo Palazzolo traccia un quadro inquietante di evidenti connivenze, che forse potrebbero aver toccato apparati deviati dello stato. Filippo e Giuseppe forse custodivano e custodiscono segreti inconfessabili. Ancora oggi, dopo quasi 30 anni di carcere. Avevano costruito una rete che li faceva sentire evidentemente protetti. Fino al 27 gennaio 1994, quando furono arrestati mentre cenavano in un ristorante di Milano, insieme alle rispettive famiglie.
Tre anni dopo la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò all’ergastolo Giuseppe Graviano per la strage di Capaci, insieme a numerosi altri boss. Nel 1999, arriva la condanna per la strage di via D’Amelio. Nello stesso anno, quella per l’omicidio di Pino Puglisi. Infine, nel 2000, quella (assieme a Provenzano, Bagarella e Riina) per gli attentati a Firenze, Milano e Roma. Oggi Giuseppe Graviano sta scontando l’ergastolo nel penitenziario di Terni. Il fratello Filippo è rinchiuso invece a Parma. Anche lui deve scontare il carcere a vita.
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