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Metodo Freinet: collaborando si impara, in una scuola senza cattedra
Mai come oggi serve educare alla cooperazione, all’uguaglianza e al rispetto per la natura, valori al centro delle tecniche di Célestin Freinet negli anni Venti. L’intervista a Franco Lorenzoni.
Tutti abbiamo sentito parlare almeno una volta di Rudolf Steiner e di Maria Montessori, in pochi conoscono Célestin Freinet. Eppure nelle scuole italiane ci sarebbe ancora bisogno di una rivoluzione gentile come la sua. Educatore appassionato, punta di diamante delle “scuole nuove” di inizio Novecento e della pedagogia popolare, oggi viene ricordato soprattutto per due idee: la prima, che per apprendere non ci sia nulla di più efficace dell’esperienza; la seconda, che gli alunni debbano esprimersi in libertà e partecipare attivamente alla costruzione della conoscenza.
Che cosa si intende con pedagogia popolare di Freinet
Facciamo uno sforzo: immaginiamo cosa possa significare per un ragazzo passare l’infanzia tra un libro di storia, una vacca da mungere e del grano da mietere. Questo gioco di immedesimazione ci aiuta a capire la genesi della pedagogia popolare, un seme germogliato negli anni in Freinet, figlio di contadini nato nel 1896 in un paesino delle Alpi marittime francesi.
Di base, questa didattica nasceva per riscattare socialmente gli alunni più poveri o provenienti da contesti sociali umili o degradati, suscitando in loro interesse negli argomenti di studio grazie a espedienti fuori dagli schemi per l’epoca. Nel libro “Nascita di una pedagogia popolare”, scritto a quattro mani con la moglie Elise e pubblicato nel 1949, Célestine scandisce le tappe che hanno portato alla creazione di tecniche didattiche innovative ma soprattutto mette in luce le valenze ideologiche e politico-sociali dell’educazione (era legato al marxismo e al comunismo).
I capisaldi originari del “metodo”
Più che metodo, tecniche, a sottolineare la dimensione artigianale di questo progetto educativo. Punti fermi di un percorso in divenire, che si possono riassumere in pochi, semplici punti.
Il procedere a tentoni, (“tâtonnement”, in francese), e cioè un apprendimento fondato sull’esperienza, sulla collaborazione coi compagni e su una revisione collettiva degli errori, con la figura dell’insegnante a orientare l’orchestra, anziché dirigerla.
Il testo libero, un tema scelto in base alle singole inclinazioni degli allievi, senza tempi di consegna: dopo aver letto collettivamente tutti gli elaborati, si votava il migliore che veniva corretto e infine stampato.
La tipografia: smontare e rimontare un testo insieme ai relativi caratteri tipografici stimolava la collaborazione tra i piccoli gruppi di lavoro e allenava lo spirito critico, visto che comprendere (e correggere) un elaborato prima di stamparlo sradicava dai ragazzi quella sacralità del testo scritto alla base di un sapere istituzionale che Freinet contestava.
Lo schedario, cioè un insieme di testi selezionati dai ragazzi cui chiunque poteva attingere per approfondire o verificare i dati.
Quelle appena descritte sono solo alcune delle tecniche collaudate da Freinet nella sua vita di ricercatore e maestro nelle campagne francesi, lottando per abbattere i muri delle aule scolastiche e sovvertire la gerarchia insegnante-allievo, in nome di una scuola democratica, realmente inclusiva e facendo innamorare della cultura generazioni di studenti. Cosa da non poco, specie “in un Paese come il nostro, con una percentuale di studenti post diploma nettamente inferiore alla media europea”, commenta Franco Lorenzoni. Maestro elementare in pensione, ha fondato nel 1980 una casa-laboratorio a Cenci, in Umbria, è stato attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa – dal 1951 centro di diffusione delle idee di Freinet in Italia – e di recente ha pubblicato per Sellerio “Educare controvento. Storie di maestre e maestri ribelli”. A lui abbiamo chiesto di aiutarci a capire il potenziale di questo metodo, oggi.
Perché è importante dare la parola ai bambini?
Quando arriva a scuola, il bambino non è una tabula rasa: porta con sé esperienze, modi di pensare e l’opera educativa deve partire dal valorizzare queste radici, arricchendole di nuovi contenuti. La qualità dell’ascolto e il dialogo sono cruciali, invitando ad esempio ragazze e ragazzi a confrontarsi attorno a un verso di Omero o a un teorema matematico. Questo è un punto fondamentale della pedagogia Freinet e in generale della scuola attiva e democratica perché la cultura non si può semplicemente trasmette,ma si deve sempre costruire insieme.
È così che si impara a cooperare?
Sì, perché si crea un luogo dove si può sperimentare e comprendere quanto sia bello pensare insieme. La pratica e metafora più significativa per me è il testo collettivo, redatto insieme al termine di un lungo lavoro cooperativo. Se ci pensiamo, i testi chiave su cui si fonda la nostra civiltà, come la Dichiarazione universale dei diritti umani o la nostra Costituzione, sono frutto di un lungo lavoro fatto da persone diverse, di culture diverse per i documenti internazionali, nel cui risultato tutti possono riconoscersi.
Questo si può fare anche in classe, tutti i giorni. Certo, scrivere un testo collettivo è un grande lavoro, richiede molto tempo e impegno. Però è un lavoro appassionante perché ci si incontra su qualche cosa che non è mio, non è tuo ma è nostro. È una costruzione fondamentale, se pensiamo ai due problemi cruciali e giganteschi che ci impegneranno nei prossimi decenni e che possono essere affrontati solo collettivamente: fare pace tra gli esseri umani e fare pace col pianeta terra, come ricordava Alexander Langer.
Freinet teneva parte delle sue lezioni all’aperto, passeggiando tra i campi. È ancora possibile questo contatto con la natura?
Credo profondamente nel valore educativo di una relazione diretta con la natura e penso che un rapporto di questo tipo si possa cercare ovunque, anche in città. C’è una natura dimenticata nella quale siamo continuamente immersi: il vento, il cielo e le sue nuvole, il sole e il suo percorso, la luna calante che ci accompagna al mattino. Bastano questi elementi su cui si fonda il ciclo della vita e qualche albero, che si trova anche in città, per osservare una gran quantità di cose e fenomeni. Certo, l’ideale sarebbe avere delle scuole circondate dal verde. Dovrebbe essere obbligatorio il verde attorno ai luoghi educativi. Dovremmo diffondere ovunque le cosiddette strade scolastiche, spazi della città aperti, in cui i ragazze e ragazzi, bambine e bambini possano circolare senza senza ostacoli, lontano dalle automobili. Ci sono una molteplicità di progetti che prefigurano scuole sconfinate in molte città, che praticano l’uscita sistematica di studentesse e studenti dalle aule per esplorare e usare creativamente gli spazi della città.
E poi le scuole possono viaggiare. Ci sono molti Centri di educazione ambientale nelle diverse regioni e noi, nella casa-laboratorio di Cenci in Umbria, sono oltre quaranta anni che organizziamo campi scuola immersi nella natura.
Esistono scuole Freinet in Italia?
Ci sono in Francia, in Belgio, non in Italia. Nel nostro Paese, però, esistono insegnanti “freinettiani” che praticano una scuola attiva dentro la scuola statale e aderiscono al Movimento di cooperazione educativa o ad altre associazioni. Crediamo molto in questa “contaminazione”: aprire degli istituti privati rischierebbe di privilegiare solo coloro che si possono permettere di frequentarli, mentre portare queste tecniche all’interno della scuola pubblica consente di lavorare in modo inclusivo.
L’istruzione è obbligatoria. È anche nella Costituzione. Ma l’apprendimento non si decreta! Non si può decretare che un alunno imparerà; bisogna convincerlo a volere imparare.
Cosa ne pensa del digitale in aula?
Oggi un ragazzino può ascoltare tutta la musica del mondo, leggere tutti i testi del mondo semplicemente stando a casa o addirittura col suo telefonino. Tutto ciò costituisce una straordinaria ricchezza a patto di non stare tutto il tempo incollati a schermi di ogni dimensione e ad avvilisce il rapporto diretto con il mondo reale e tra compagni. Allora noi insegnanti dobbiamo cercare un equilibrio, compensare le storture di un eccesso del virtuale elaborando pratiche e proposte controvento. Se stiamo attaccati agli schermi per una quantità di ore sterminata, dobbiamo ritrovare il corpo, il contatto diretto con le cose, lo sguardo. La peggiore deformazione da sfatare è l’idea che tutto il mondo si possa conoscere attraverso un video. Non è così. Il mondo lo conosci se lo esplori, se lo percorri, se inciampi, se ti fai male, se sali su un albero. Questo vale anche nelle relazioni reciproche, non solo nel contatto con la natura: rischiamo di perderci delle parti preziose della nostra sensibilità e della nostra intelligenza.
A proposito di sensibilità, è necessario introdurre l’educazione affettiva nelle scuole?
Se per educazione emotiva si intende “adesso ti insegno che cos’è un’emozione”, questo non mi convince. Io penso che la cosiddetta “educazione affettiva” dovrebbe esserci sempre. Non può certo limitarsi a trenta ore in tre mesi, peraltro facoltative e fuori dall’orario curricolare. Il nodo è se la relazione con il sapere riguarda l’interezza della persona: questa è l’educazione affettiva.
Mi spiego: noi conosciamo attraverso l’intelligenza, il ragionamento ma anche attraverso le sensazioni, le emozioni, i nostri cunque sensi all’erta. E dunque credo che tutta l’educazione debba essere riletta e ripensata in questa ottica. Io vorrei farmi aiutare da Leopardi, da Platone e da Pitagora, dalla Montessori e da Elise e Celestin Freinet: sono tante le compagne e compagni di viaggio che dovrebbero popolare l’immaginario di noi insegnanti, delle ragazze e dei ragazzi, perché è nella storia culturale che affonda la possibilità di essere un po’ più umani, un po’ meno alienati.
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