Gli 80 migranti pakistani, afgani, siriani, sopravvissuti alterribile naufragio di Steccato di Cutro, oggi sono stati trasferiti in un albergo. Dopo aver vissuto però, per nove giorni, in condizioni orribili quasi quanto il viaggio che hanno dovuto affrontare su quella barca partita dalla Turchia con il bel tempo e spezzatasi a 100 metri dalla costa calabrese per il maltempo e la mancanza di soccorsi. Sono bastate alcune foto agghiaccianti per mobilitare le istituzioni nazionali e regionali e organizzare il trasferimento immediato dei sopravvissuti, forse per evitare critiche ulteriori.
Depositati, quasi abbandonati, in due capannoni adiacenti al Cara di Crotone, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo, senza letti, senza riscaldamento, con appena due o tre bagni da condividere in circa 80 persone. Una situazione che Franco Mari ha potuto documentare accedendo in prima persona al centro, utilizzando il suo status di parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra. Dalla sua testimonianza, e da un esposto presentato in procura dalla senatrice Ilaria Cucchi, nasce la decisione di trasferire i superstiti in un luogo più idoneo.
Esseri umani già dimenticati
“Sono rimasto sorpreso da quello che ho visto nel Cara di Crotone, quasi non riuscivo a crederci”, racconta il deputato Mari, ancora scosso dall’esperienza. Un senso di straniamento dettato dal fatto che “quelle erano le stesse persone salvate per i capelli dal naufragio, le stesse persone che hanno perso i propri parenti, le stesse persone di cui parliamo incessantemente da nove giorni. Eppure allo stesso tempo erano lì, quasi dimenticati all’interno di due capannoni, in condizioni impressionanti. Quelli sono i non morti“.
In quei capannoni mancava tutto, o quasi, racconta Mari: dal riscaldamento ai giacigli per la notte. “Un ragazzo non aveva più le scarpe, giusto un paio di ciabatte da mare. Del vestiario deve essere arrivato sotto forma di donazione, perché un bambino invece aveva delle scarpe nuove, ma non ci sono i letti: 28 brande per 80 persone, qualche materassino di gomma, alcuni materassi gettati a terra. Altri invece dormono sulle panchine di ferro”. Le condizioni igieniche “pressoché assenti”, il morale degli “ospiti” decisamente a terra: “C’era un signore che non smetteva di piangere, ha perso tutta la famiglia nel naufragio”. E poi la condizione delle donne: “C’erano solo un paio di bagni, una sola doccia, tutto in condivisione tra uomini e donne. Molte madri, con i loro bambini piccoli, ci hanno chiesto di essere portate via, che per loro era impossibile rimanere lì”. Finalmente, dopo nove giorni, il loro grido è stato ascoltato.
Il concetto di accoglienza del Cara di Crotone
Non certo il massimo per un centro che, come indica il nome, dovrebbe essere di “accoglienza”, in attesa che le persone appena sbarcate possano presentata domanda di protezione. Protezione cui afgani e siriani, in fuga rispettivamente dal regime talebano e dalla guerra, avrebbero diritto automaticamente, con il paradosso però di non avere a disposizione canali di accesso sicuri e regolari, se si escludono quelli dei corridoi umanitari predisposti dall’Italia grazie alla Comunità di Sant’Egidio e alle chiese evangeliche.
“Sono arrivato al Cara di Crotone domenica nel tardo pomeriggio, dopo una via Crucis e dopo aver visitato la spiaggia di Cutro, un’altra esperienza straziante – racconta Mari – . A quell’ora ho trovato solo forze dell’ordine. Le persone sistemate in quei capannoni non potevano uscire, forse perché in attesa di testimoniare”. Questo di fatto significa che “erano a tutti gli effetti sotto la custodia dello Stato, come detenuti. Questo fa assumere alla vicenda una gravità particolare: se io posso uscire, posso andare a procurarmi qualcosa. Loro dipendevano interamente dallo Stato”. Il risultato quello visibile nelle foto: fortunatamente, quanto meno, il potere delle immagini ha reso possibile un cambiamento.