Con passo felpato e sguardo enigmatico, i gatti sembrano sempre avvolti nel mistero. Alcuni lo sono davvero, o meglio lo erano fino a qualche settimana fa. Sono quelli con la pelliccia arancione, i tanti Garfield di casa nostra, noti già dal tempo degli antichi Egizi e divenuti un rompicapo genetico negli ultimi sessant’anni. Nella maggior parte dei mammiferi, infatti, compresi gli esseri umani, i peli rossi sono dovuti da mutazioni genetiche che influenzano una proteina, l’Mc1r, che determina l’azione dei melanociti nel produrre pigmenti più o meno scuri. Ma nei gatti no, questo meccanismo non funziona. E allora cosa gli dona un colore così particolare?
Nel 1912, prima che il sistema di determinazione del sesso XX/XY fosse scoperto, il genetista americano Clarence Cook Little propose una teoria visionaria, che lui chiamò Teoria del Sex-producing factor, rappresentato da una X, per provare a spiegare in che modo i gatti ereditassero i colori arancioni del mantello. La scienza però non è mai riuscita a dimostrarla. Né a capire da dove provenissero quella colorazione aranciata, più o meno monocromatica, e tutte quelle composte di cui l’arancione è parte, come il manto calico – la pelliccia tricolore in prevalenza bianca con grandi macchie arancioni e nere – o il manto tartarugato – per lo più screziato sui toni del nero e arancio con pochi segni bianchi – già noti al mondo della ricerca come modello sperimentale.
Il trucco c’è, ma non si vede
Che nei gatti arancioni ci fosse lo zampino della genetica era piuttosto evidente, anche perché i calico e i tartarugati sono quasi esclusivamente femmine (caratterizzate da un cariotipo di coppie di cromosomi XX) mentre i gatti arancioni sono generalmente maschi (con coppie di cromosomi XY). Eppure, il mistero rimaneva irrisolto. Dopo sessant’anni di ricerche, due studi indipendenti, condotti dalla Stanford University in California e dalla Kyushu University in Giappone, ora hanno svelato l’arcano: nessuna magia, tutto dipende dalla perdita di un segmento di dna sul cromosoma X.
Per scoprirlo, il team di Greg Barsh del dipartimento di genetica della prestigiosa università californiana ha raccolto e analizzato campioni di pelle da quattro feti di gatti arancioni e quattro non arancioni ricoverati in una clinica di sterilizzazione. I ricercatori hanno misurato la quantità di Rna (il componente cellulare che risponde al Dna e dirige la formazione delle proteine) che ciascun melanocita esprimeva e hanno determinato il gene che lo codificava. Il risultato è stato sorprendente: rispetto agli altri gatti, i melanociti dei gatti arancioni producevano 13 volte più Rna da un gene chiamato Arhgap36, che per semplicità chiameremo “gene arancione”, localizzato nel cromosoma X. Ancora più sorprendentemente, le analisi delle sequenze del gene non hanno evidenziato mutazioni nel Dna nei gatti arancioni, ma più che altro la mancanza di un tratto di Dna, localizzato in prossimità del gene arancione. L’assenza di questo segmento non influisce quindi direttamente sui componenti aminoacidici delle proteine (e non produce effetti visibili) ma è coinvolto nella regolazione della quantità di Rna, e cioè di materiale proteico, prodotta dalla cellula.
— National Human Genome Research Institute (@genome_gov) July 20, 2020
Le prove a sostegno della scoperta
Non proprio una mutazione allora, ma più precisamente una delezione (una mutazione cromosomica), con conseguente perdita irreversibile di materiale genetico. A dimostrazione di quanto scoperto, esaminando una banca dati di 188 genomi di gatti in tutto il mondo, il team di Barsh ha evidenziato che ogni singolo gatto arancione, calico o tartarugato presenta questa stessa delezione nel cromosoma X. Secondo gli esperti è insolito che una mutazione di questo tipo renda un gene più attivo, invece che meno, ma esperimenti simili condotti dal biologo dello sviluppo Hiroyuki Sasaki dell’Università di Kyushu e dai suoi colleghi hanno rilevato la stessa delezione in 24 gatti selvatici e domestici del Giappone, oltre che in 258 genomi di gatti campionati in tutto il mondo. Come se non bastasse, i ricercatori giapponesi hanno anche scoperto che la pelle dei gatti calici aveva più Rna Arhgap36 nelle regioni arancioni rispetto a quanto ne avesse in quelle marroni o nere.
L’inattivazione del cromosoma X nei gatti arancioni
E tutto torna: se la delezione del Dna nel cromosoma X non ha una controparte sul cromosoma, l’effetto sulla pelliccia è inevitabile. Per questo la maggior parte dei gatti arancioni è di sesso maschile (cariotipo XY). Le femmine di gatto, invece, come noi esseri umani, ereditano un cromosoma X da ciascun genitore. Durante lo sviluppo embrionale, ogni cellula sceglie casualmente un X da cui esprimere i geni. Se in uno c’è la delezione, può avvenire che l’altro cromosoma sopperisca alla mancanza oppure che l’altro si arrotoli in una conformazione per lo più inerte: un fenomeno chiamato inattivazione dell’X. Di conseguenza, i gatti tartarugati o calici si ritrovano con macchie separate di pelo nero e arancione, a seconda del cromosoma inattivato in quella parte della pelle.
Quando Barsh e Sasaki hanno saputo che i rispettivi gruppi di ricerca avevano scoperto l’esistenza della stessa mutazione nei gatti arancioni, hanno deciso di pubblicare su BioRxiv i loro preprint contemporaneamente, sorpresi dal fatto che il gene Arhgap36, già noto per il suo ruolo nell’embriogenesi, potesse influenzare anche la colorazione di peli e capelli. Dopo più di cento anni di studi sui gatti, insomma, possiamo dare ragione al professor Cooke Little: per la pelliccia arancione, l’X factor esiste davvero.
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