Innovazione scientifica, scoperte storiche, evoluzione genetica, giustizia sociale e grandi dilemmi etici. Nel suo nuovo documentario Genesis 2.0 (al cinema dal 24 settembre), il regista svizzero Christian Frei fa man bassa di spunti per grandi riflessioni e questioni esistenziali.
Il tema su cui vuole far luce è esplosivo: i limiti della biologia sintetica, verso cui la scienza e il mondo si stanno spingendo. Una sfida senza precedenti, in cui l’essere umano tenta di impossessarsi dei segreti della vita e della genetica, per dar vita a una seconda Genesi. Una nuova era, in cui l’ultima parola sulla creazione non apparterrà più a Dio o alla natura, ma soltanto all’uomo.
L’argomento è una miccia che nel film piano piano si accende, attraverso l’intreccio di storie lontane e in cui un mammut diventa l’insolito e unico comun denominatore.
È così che Christian Frei ci porta prima ai confini del mondo e della civiltà e poi in strutture all’avanguardia, dove la scienza sfuma nella fantascienza. Un viaggio tra i paesaggi primordiali delle isole della Nuova Siberia, dove andremo a caccia di millenari resti di mammut, e gli ambienti futuristici degli inquietanti laboratori di biologia sintetica sudcoreani e della banche del dna cinese, dove i ricercatori manipolano e sequenziano il dna, clonando animali e cercando di riportare in vita specie estinte migliaia di anni fa.
Genesis 2.0, la trama del documentario
Ogni anno nell’Artico siberiano vengono trovate tra le 20 e le 30 tonnellate di avorio di mammut. Un vero e proprio tesoro, prezioso non soltanto dal punto di vista archeologico, ma anche economico e scientifico. Una grossa zanna di mammut, se perfetta, può valere infatti tra i 45mila e i 90mila dollari. Una volta scolpita e cesellata, può superare persino il milione.
Trovare questi tesori, però, non è impresa facile e richiede enormi sforzi e sacrifici a chi ha il coraggio di restare per mesi sulle sperdute e desolate isole siberiane, dove a essere in gioco è la sopravvivenza stessa.
Il documentario Genesis 2.0 ci porta proprio lì, al largo della costa russa della Jakutia, lontani da ogni forma di civiltà, dove molto probabilmente non andremo mai. Un’avventura al limite dell’ignoto e immersa in atmosfere affascinanti e insieme inquietanti, in cui l’Artico appare quasi come un altro pianeta e al tempo stesso una creatura selvaggia, dotata di un potere letale e sconosciuto.
Ad affrontarlo nel film è un manipolo di cacciatori, di cui impariamo a fare la conoscenza, grazie all’occhio attento e discreto del co-regista del film Maxim Arbugae, un giovane filmaker jakuziano, ex giocatore di hockey, che ha visto la sua vita trasformata dopo il suo primo viaggio a 21 anni sulle isole della Nuova Siberia.
Mentre giravo sulle Isole, sono diventato parte della ‘famiglia’ di cacciatori di mammut. Insieme abbiamo viaggiato da nord a sud, nella nostra ‘caccia al tesoro’, camminando centinaia di chilometri nella vastità della tundra infinita. Ho vissuto con i cacciatori come un loro pari. Sono stato così felice di sentire il rispetto di questi uomini. Mi hanno accolto nella loro comunità chiusa. E spero dalle immagini si capisca quanto io sia stato accettato
Maxim Arbugae, co-regista
Scopriamo così che a tentare questa anacronistica caccia all’oro bianco sono per lo più uomini nativi del nord della Russia, pronti ad affrontare le insidie dell’oceano Artico e a sfidare antiche profezie che promettono sventura a chi disturba questi antichi resti. Un viaggio pieno di incognite, che per molti rappresenta un’ultima chance di riscatto e sostentamento, ma dal quale non tutti riescono a tornare.
Il film ci rivela anche un’ennesima conseguenza del riscaldamento globale in atto che, con l’innalzarsi delle temperature, ha accelerato inesorabilmente lo scioglimento del permafrost, lasciando riemergere queste gigantesche zanne d’avorio, sepolte dai secoli.
Il permafrost artico si sta scongelando a una velocità maggiore di quanto previsto dai climatologi, rilasciando gas di…
Questa esplorazione dell’arcipelago artico è solo l’inizio di un viaggio assai più complesso che, da questi luoghi sperduti, ci porta nei musei, nelle aziende e nei laboratori di biologia sintetica, dove scienziati e business men manipolano ogni giorno la vita e la genetica, nel tentativo di riportare in vita specie estinte e di impossessarsi dei segreti della creazione. L’alba di un nuovo Jurassic Park, dove la fantascienza potrebbe trasformarsi un giorno in realtà.
Il film attira gli spettatori in un mondo arcaico e poi li sorprende con un balzo nel futuro. Tratta di leggende, miti e tabù e ci confronta con la nostra paura di un futuro sconosciuto
Christian Frei, regista
Dalle atmosfere cariche di presagi delle isole Siberiane, con i loro retaggi culturali influenzati da superstizioni e antichi rituali, ci ritroviamo così in luoghi dove la scienza è l’unica divinità ammessa. Contesti in cui le questioni etiche si fanno centrali, aprendo una serie di interrogativi attualissimi, che il film offre allo spettatore, senza dargli risposte univoche, ma attribuendo loro l’enorme e delicatissima valenza che meritano.
È così che, guidati dal regista, andiamo a visitare il bizzarro Mammoth Museum russo diretto da Semyon Grigoriev, una sorta di paleontologo che insieme a sua moglie, la ricercatrice Lena Grigorieva, sogna di riportare alla vita i mammut lanosi. Nel suo museo è esposta la più grande carcassa di questa specie mai rinvenuta e il cui ritrovamento è documentato anche nel film.
Da lì ci spostiamo negli Stati Uniti, per partecipare a una conferenza scientifica di biologia sintetica a Boston, dove centinaia di studenti entusiasti chiedono selfie al genetista americano George Church, del Wyss Institute di Harvard, considerato uno dei più grandi visionari nel campo della biologia sintetica.
Lo straniamento emotivo provato sulle isole della Siberia ha il suo corrispettivo etico-morale, quando, insieme al direttore del museo di mammut, entriamo nel campus aziendale della Sooam Biotech in Corea del Sud, dove gli scienziati hanno già clonato centinaia di animali domestici, per soddisfare padroni che non si rassegnano alla perdita dei loro fidati amici a quattro zampe.
Qui, l’ambizioso direttore del museo russo Semyon, armato dei campioni di carne di mammut rinvenuti sulle isole dai cacciatori, sogna di poter trovare la preziosa cellula viva in grado di riportare in vita la specie del mammut lanoso, impiantandolo in una femmina di elefante. Le sue speranze sono riposte nel fondatore e guru dell’azienda Woo Suk Hwang, discusso ricercatore, noto per i suoi esperimenti (e scandali) sulle cellule staminali.
La telecamera di Frei ci porta infine alla National Gene Bank di Shenzhen in Cina, dove i genomi sono sequenziati e la vita sulla Terra diventa “big data”, con l’obiettivo di tenere in pugno l’evoluzione e addirittura “rendere Dio perfetto”, come sentiamo affermare da uno scienziato nel documentario.
Tra curiosità e scetticismo
Nominato all’Oscar nel 2002 per il suo War Photographer, sulla storia del celebre fotografo di guerra James Nachtwey, Christian Frei è oggi considerato tra i più importanti documentaristi al mondo. Il suo approccio in questo film è quello di un curioso scetticismo, che lo porta a far emergere domande, senza condannare a priori, ma andando dritto al cuore dei grandi temi etici. Bastano pochi secondi di telecamera fissi sull’espressione gelida e controllata di una responsabile della Gene Bank ad aprirci un mondo di riflessioni, quando un ricercatore la pone di fronte al fatto che usare la tecnologia per evitare difetti congeniti e selezionare le nascite “pone aspetti etici delicati”.
Il film tratta tutti i protagonisti con lo stesso rispetto, indipendentemente dalle loro visioni e obiettivi, anche quando i loro piani e intenzioni sembrano assurdi e paurosi o troppo fantascientifici
Christian Frei, regista
La bravura di Frei è anche quella di attirarci in uno dei più remoti angoli del pianeta, lasciandoci dapprima spaesati per poi stuzzicare la nostra curiosità, riempiendo le immagini, le musiche e la fotografia di una malinconia struggente. Un effetto straniante, scandito anche da cantilene suggestive, come la Olonkho – Eles Bootur, un antico canto epico di Jakutsk, dichiarato dall’Unesco “un capolavoro dell’umanità, della tradizione umana orale e intangibile”.
In Genesis 2.0 scienza, superstizione, utopia, distopia, passato, presente e futuro si fondono, per raccontare una storia epica e universale, che pone al centro il tema dell’hybris. Quella pericolosa ed eterna ambizione, insita nell’essere umano, di sfidare la natura e, persino, di sostituirsi a Dio.
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