Tra John Lennon, Paul McCartney e Ringo Starr, certamente George Harrison ha rappresentato l’anima dei Beatles più introspettiva e mistica. Una posizione abbastanza insofferente verso il successo e la celebrità e, al contrario, un grande amore per la cultura orientale e indiana. Animo gentile e sensibile, è sua l’idea del primo grande evento rock a
Tra John Lennon, Paul McCartney e Ringo Starr, certamente George Harrison ha rappresentato l’anima dei Beatles più introspettiva e mistica. Una posizione abbastanza insofferente verso il successo e la celebrità e, al contrario, un grande amore per la cultura orientale e indiana. Animo gentile e sensibile, è sua l’idea del primo grande evento rock a scopo benefico, documentato anche con un album ufficiale dal vivo, The Concert For Bangladesh (Apple, 1972).
http://www.youtube.com/watch?v=ei6VyjlgxZU
Nato a Liverpool il 25 febbraio 1943, entra nei Quarrymen (poi Beatles) nel 1958, giovanissimo ma già dotato di un’eccellente tecnica chitarristica. Anche se i suoi “soli” non sono mai stati appariscenti o plateali, il suo modo di suonare è brillante e fantasioso. Benché nel primo periodo faccia fatica a imporsi come autore – schiacciato dal predominio del duopolio Lennon-McCartney – è a partire da Rubber Soul (Parlophone, 1965) che comincia la sua ascesa personale.
E’ proprio nel periodo psichedelico che Harrison offre il meglio di sé: Norwegian Wood con un sitar epocale, Taxman, nonché Love You To e Within You Without You con gli splendidi affreschi lisergici. Nell’età adulta dei Fab Four dà poi alla luce i suoi capolavori senza tempo come While My Guitar Gently Weeps, Something e Here Comes The Sun. Della carriera solista, è fondamentale citare All Thing Must Pass, ambizioso (e riuscito) triplo LP che racchiude tutta l’arte del chitarrista, primo nelle classifiche inglesi e americane, grazie al celeberrimo singolo My Sweet Lord. Album straordinario che risulterà irripetibile in una carriera fatta di alti e bassi.
Roberto Vivaldelli
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