I cambiamenti climatici minacciano l’esistenza del ghiacciaio dell’Aletsch, il più grande delle Alpi. Solo noi possiamo riscrivere il suo destino.
I ghiacciai dello Stelvio sono sempre più neri
Uno studio dell’Università Statale di Milano mostra l’annerimento dei ghiacciai del Parco nazionale dello Stelvio dagli anni Ottanta fino a oggi. Un cambiamento dovuto all’accumulo di detriti e all’inquinamento.
I ghiacciai del Parco nazionale dello Stelvio sono sempre più “neri” e quindi sempre più vulnerabili ai cambiamenti climatici. A sostenerlo è un gruppo di ricercatori del dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università degli Studi di Milano che per la prima volta ha analizzato 40 anni di dati dei satelliti Landsat.
Un problema di albedo
La ricerca pubblicata su Global and Planetary Change si è concentrata sul gruppo di montagne dell’Ortles-Cevedale ed è stata coordinata dal ricercatore Davide Fugazza, il quale ha osservato i dati attraverso un algoritmo che, a partire dalle immagini satellitari, ha permesso di ottenere il valore di albedo, ovvero di riflettività della superficie.
L’albedo, infatti, è una proprietà fondamentale della superficie di un ghiacciaio, perché indica la capacità di riflettere la radiazione solare. Una superficie chiara, come la neve fresca, ha un valore di albedo particolarmente elevato e pertanto riflette la maggior parte della radiazione solare incidente. Una superficie scura, come una roccia, ha un valore di albedo molto più basso e pertanto solo una minima parte della radiazione solare viene riflessa. Un albedo minore implica quindi un maggior assorbimento di radiazione solare da parte del ghiaccio ed una maggiore fusione, con importanti ricadute sullo stato di salute del ghiacciaio.
Polveri che causano l’annerimento dei ghiacciai
Analizzando l’archivio delle immagini Landsat dall’inizio degli anni Ottanta fino ai giorni nostri, i ricercatori hanno scoperto che per la maggior parte dei ghiacciai studiati si è verificato un sensibile decremento dell’albedo. In altre parole, un annerimento del ghiacciaio.
Tra le principali cause di questo fenomeno c’è l’aumento dei detriti provenienti dalle pareti rocciose circostanti il ghiacciaio, detriti che si riversano sui ghiacci a seguito dell’aumento delle temperature. Oltre a rendere i versanti instabili, l’aumento delle temperature causa anche la fusione precoce della neve caduta in inverno e una maggiore esposizione del ghiaccio durante l’estate.
Un importante contributo all’annerimento viene però anche dalle polveri trasportate attraverso l’atmosfera, sia di origine naturale (come quella dei deserti) che di origine antropica (ad esempio il particolato fine proveniente dalla combustione dei motori diesel oppure le polveri prodotte dalle attività industriali della Pianura padana o ancora dagli incendi boschivi).
“Si tratta del primo studio in cui l’entità dell’annerimento viene valutata su ghiacciai dell’arco alpino in un periodo di tempo così ampio”, commenta Fugazza. “Conoscere l’intensità di questo fenomeno permette di stimare la fusione del ghiaccio in maniera più accurata, valutare gli effetti dell’annerimento sul regresso dei ghiacciai e sviluppare modelli previsionali per ottenere indicazioni sulla sensibilità dei ghiacciai ai cambiamenti climatici”.
Il ghiacciaio dei Forni, il più esteso dell’Ortles-Cevedale, è tra i “grandi malati” dell’arco alpino, dove, come spiega Fugazza a Il Fatto Quotidiano, dal 1960 al 2015 si è registrata una perdita di superficie ghiacciata del 30 per cento. In poco più di cinquanta anni, insomma, si sono sciolti 137 chilometri quadrati di nevi perenni, sostanzialmente pari all’estensione del lago di Como.
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