Sette idee per vivere l’atmosfera natalizia tra lo shopping nei mercatini, passeggiate in borghi vestiti a festa e mirabili opere d’arte.
Gianfranco Rosi. La mia Lampedusa, l’isola dove chiunque è cittadino
Un anno vissuto sull’isola di Lampedusa per raccontare la realtà dei due mondi che la abitano, con il desiderio di mostrarla nei suoi aspetti più umani e quotidiani. L’intervista al regista di Fuocoammare, Gianfranco Rosi.
Gianfranco Rosi è un regista italiano di documentari che vive tra New York e il resto del mondo. I suoi ultimi film hanno ottenuto i più ambiti premi europei: Sacro Gra è stato giudicato come miglior film alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2013, portandosi a casa il Leone d’oro, mentre il suo ultimo lavoro, Fuocoammare, ha riscosso un successo di critica e di pubblico all’ultima edizione del Festival di Berlino, dove ha vinto l’Orso d’oro come miglior film. Il suo lavoro è caratterizzato da un atteggiamento di profonda onestà e correttezza nei confronti delle persone e delle situazioni messe in scena. La sua scelta stilistica è rigorosa e mette gli spettatori di fronte a realtà spesso ignorate e ambienti estranei. I suoi lavori sono ritratti raffinati e partecipi, a dimostrazione del fatto che i documentari hanno la stessa dignità artistica dei film di finzione, capaci di comunicare con il pubblico quando sono il frutto – come in questo caso – di un’approfondita ricerca, condotta con passione, rigore e volontà di conoscenza.
Fuocoammare mostra una grande umanità degli isolani nei confronti dei migranti. Questa è dovuta alla vicinanza rispetto agli avvenimenti o è il tipo di vita a cui sono abituati gli abitanti di Lampedusa a renderli più comprensivi verso le difficoltà altrui?
Ci sono persone più o meno tolleranti anche in un luogo piccolo come Lampedusa, ma chi si lamenta lo fa relativamente al fatto che i mezzi d’informazione parlano di Lampedusa soltanto per descrivere il dramma dei migranti, mai per altre ragioni. È però vero che gli isolani sono abituati a uno stile di vita duro e sanno arrendersi alle regole dettate dalla natura, così come alle situazioni sociali che mutano. Quando abbiamo vinto l’Orso d’oro a Berlino il medico, Pietro Bartolo, che ha un ruolo importante nel mio film, ha risposto alla stessa domanda che mi sta facendo ora affermando che chi vive su un’isola è pronto ad accogliere qualsiasi cosa e chiunque provenga dal mare.
Com’è cambiato il rapporto tra gli isolani e i migranti visto che questi rimangono sull’isola di meno rispetto a qualche anno fa?
I rapporti tra popolazione e migranti sono oggi inesistenti, non tanto per il fatto che quest’ultimi rimangono sull’isola per poco, quanto per le scelte politiche che hanno modificato drasticamente il modo in cui queste persone raggiungono Lampedusa. Da quando è stata autorizzata l’operazione Mare nostrum, e a seguire l’operazione Triton di Frontex, i confini sono stati spostati sul mare, dove i migranti vengono intercettati dagli italiani e portati con le navi militari e i pattugliatori a Lampedusa. Gli sbarchi sono stati, di conseguenza, istituzionalizzati. I migranti non arrivano più spontaneamente sull’isola, come accadeva prima, ma è tutto organizzato e, di conseguenza, soltanto chi lavora nei centri d’accoglienza o si presta come volontario ha un rapporto con loro, altrimenti entrare in contatto è difficile.
Lei è rimasto a Lampedusa per un anno per documentarsi adeguatamente. In base alla sua esperienza, come definirebbe l’impatto e le conseguenze del fenomeno dell’immigrazione nella vita degli isolani?
Ormai l’impatto nella vita quotidiana di chi vive a Lampedusa ma non ha a che fare con i migranti per scelta o lavoro, è nullo. Forse, però, sarebbe più giusto dire che esiste un impatto indiretto. Cioè quello che diffonde un’immagine di Lampedusa esclusivamente legata a questo fenomeno tragico. La diffusione di notizie è fondamentale, senza però dimenticarsi di comunicare una terra che ha, prima di tutto, una forte identità locale.
Si direbbe che il personaggio più rappresentativo e complesso del film sia il medico dell’isola, Pietro Bartolo. Autentico “eroe” quasi sconosciuto che assume su di sé il peso e la funzione che spetterebbe allo stato. Invece ha scelto di fare del bambino il protagonista principale. Perché?
La scelta del ragazzo è stata casuale, non premeditata, ma per me è lui il personaggio più complesso. Samuele, attraverso le metafore del quotidiano come l’occhio pigro, il gioco della guerra, i disegni sul cactus, la difficoltà di respirazione, rimanda sempre a qualcosa che va oltre. Attraverso di lui il film diventa un romanzo di formazione e il suo filtro ci mette inevitabilmente a confronto con noi stessi che, come fossimo bambini, non comprendiamo. Il medico, invece, è la razionalità, la fiducia, l’autorità. Nel film si affiancano due mondi, quello dell’isola vista dal punto di vista del bambino, e quello dei migranti. Il fulcro, l’unico elemento di sostegno tra questi due mondi, è il medico.
Alle rare polemiche di chi l’ha accusata di aver sfruttato la tragedia per fare spettacolo, come risponde?
Ho filmato la morte perché mi è venuta addosso. Ero a bordo di una nave che soccorreva le barche dei migranti e mi sono trovato di fronte alla tragedia. Prima l’ho filmata, poi ho dovuto scegliere se mostrarla e l’ho fatto perché ritengo sia doveroso che il mondo sappia di questa situazione. È stata una scelta e, una volta presa, è stato importante che tutto il montaggio del film fosse costruito per arrivare e per uscire dalla tragedia. Non mostrarla sarebbe stato vile perché la gente non può morire a cinque ore di navigazione dalla Libia, soffocata come in una camera a gas.
Il suo film è stato mostrato al parlamento europeo ed è stato distribuito, finora, in 64 paesi del mondo. È soddisfatto di questa grande eco?
Il film ha avuto un’esposizione enorme. La cosa triste è che, nonostante molti sappiano dell’esistenza del film, non altrettanti l’hanno visto. I numeri non sono eclatanti, basti pensare che in Italia l’hanno visto solo circa 160mila persone. Ritengo che sia importante conoscere le dinamiche di queste tragedie. Da quando c’è Mare nostrum muoiono più persone che cercano di raggiungere Lampedusa rispetto a prima dell’operazione perché la linea del confine marino istituita a metà strada tra le coste libiche e Lampedusa non ha fatto altro che aumentare le truffe e le tragedie. Partono barche rotte e gommoni che, illusi dal tragitto più breve, affondano dopo soltanto qualche chilometro dalla partenza e spesso prima del confine, dove le barche italiane non arrivano a salvarli. L’unica soluzione sarebbe andare fin lì ad aiutarli. Desidero un mondo in cui siamo tutti cittadini legittimi, in cui viene abolita la restrizione delle quote, in cui non esiste più la parola integrazione. Perché parlare di integrazione è di per sé sottolineare una differenza. È una parola falsa, colonialista, che indica intrinsecamente un limite.
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