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Gianni Berengo Gardin: “La fotografia è sempre una sorpresa. Non dipende da me, mi si presenta e io scatto”
Si definisce un artigiano e un testimone della storia, non un artista ma Gianni Berengo Gardin è certamente uno dei più grandi fotografi italiani. A Milano una bella mostra ne testimonia 60 anni di mestiere.
Il suo lavoro, così come il suo impegno, è sociale e civile: con la macchina fotografica ha documentato soprattutto la storia della società, anche quando sembrava non farlo. Gianni Berengo Gardin è nato il 10 ottobre 1930 e quest’anno compirà 90 anni, la maggior parte dei quali trascorsi in giro per l’Italia e il mondo a raccontarne i fatti. La mostra alla Fondazione Forma per la Fotografia di Milano è una bella summa dei suoi scatti: 24 bianco e nero impreziositi dal commento di altrettanti amici noti del fotografo. Fino al 5 aprile 2020.
Come in uno specchio, 24 fotografie con testi d’autore
Più di 200 mostre a lui dedicate e altrettanti libri: Gianni Berengo Gardin scatta da sempre ma quest’ultima bella occasione di vedere i suoi lavori a Milano è forse diversa dalle altre perché celebra gli incontri del fotografo con alcuni volti noti italiani e stranieri che hanno voluto raccontare il loro rapporto o l’opera di Berengo Gardin, commentando le 24 fotografie esposte alla Fondazione Forma. Tra i più celebri al grande pubblico abbiamo: registi come Marco Bellocchio e Carlo Verdone, architetti come Stefano Boeri, Renzo Piano e Vittorio Gregotti, artisti come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis; il sociologo Domenico De Masi, grandi maestri come Ferdinando Scianna e Sebastião Salgado e scrittori come Maurizio Maggiani e Roberto Cotroneo.
Tra i progetti che più testimoniano il mestiere di documentarista di Gianni Berengo Gardin, c’è certamente quello realizzato all’interno dei manicomi negli anni Settanta – prima della legge Basaglia – che con estrema crudezza portò alla luce ciò che tutti immaginavano ma non avevano ancora visto. E anche scatti celebri e apparentemente romantici, come quelli del bacio, mostravano l’eccezionalità di un gesto semplice e spontaneo, allora invece raro per via del proibizionismo. C’è sempre un racconto dietro questi bianco e nero, un aspetto sociale e culturale da diffondere: per esempio la situazione femminile ritratta nei volti delle donne del sud o quella dei rom nei campi nomadi nelle città italiane.
Di tutto questo e in generale di fotografia, abbiamo chiacchierato proprio insieme a Gianni Berengo Gardin. Ecco cosa ci ha raccontato in una breve intervista.
La mostra alla Fondazione Forma di Milano si intitola “Come in uno specchio”. Per lei è davvero come guardarsi allo specchio vedere quelle 24 fotografie? E come le ha scelte?
Assolutamente sì, mi rappresentano a pieno anche se non è stato affatto semplice selezionarle tra un archivio di quasi 1 milione e mezzzo di scatti. Abbiamo scelto quelli per noi (Berengo Gardin e il suo staff, ndr.) più rappresentativi e solo in seguito gli “amici” coinvolti hanno deciso quali avrebbero commentato.
Qual è il suo scatto preferito in mostra?
Certamente quello del vaporetto a Venezia, che non a caso è anche quello utilizzato per la locandina della mostra. Sono nato in Liguria ma sono veneziano, da sempre.
Venezia infatti è molto presente: il percorso espositivo parte e termina con immagini della sua città.
Ce ne sono tante e differenti ma quelle più documentaristiche sono certamente quelle del ciclo delle grandi navi. Le ho scattate per polemica: ciò che a me dava più fastidio dell’invasione di questi colossi marini era l’inquinamento visivo, del resto sono un fotografo. Poi i miei amici del Comitato No grandi navi mi hanno informato su tutti gli altri aspetti di questo fenomeno, parliamo di un inquinamento diffuso: atmosferico, acustico e dei fondali della laguna. Dev’essere chiaro che il Comitato – i cui membri sono tutti veneziani – non si batte perché le navi non vengano più a Venezia; vorrebbero solo che facessero un altro giro per arrivare in porto, che non transitassero nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco. Mi sembra legittimo.
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Quale avvenimento futuro, quale tratto di storia non ancora accaduto, vorrebbe immortalare?
Io non desidero nulla. Come fotografo intendo. E sa perché? Non dipende da me, è sempre una sorpresa lo scatto, qualcosa di non previsto, che ti si presenta, si pone davanti agli occhi e tu semplicemente scatti. Quindi non ho desideri inconsci.
Quali fotografi apprezza?
Sebastião Salgado, Josef Koudelka, Henri Cartier-Bresson, Margaret Bourke-White. In generale mi piacciono di più i fotografi che lavorarono fino agli anni Settanata. Tra i “nuovi” italiani invece prediligo sicuramente Ferdinando Scianna e Ivo Saglietti.
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Dice sempre di non essere un artista, anche se per il pubblico lei è un grande fotografo. Quindi se le chiediamo “Chi è Gianni Berengo Gardin?”, lei cosa risponde?
Sono un artigiano che cerca di fare al meglio possibile il suo lavoro. Per me l’importanza della foto non è l’arte, l’artistico, bensì il documento, il documentare e quindi come artigiano io cerco di realizzare dei documenti.
Cosa pensa allora un artigiano come lei, dell’uso/abuso della fotografia di oggi? Lei scatta foto con il cellulare?
Io non faccio foto con il cellulare. Ho volutamente un telefonino che non scatta foto. Il telefono serve per chiamare non per fare foto. Certo che avere in tasca un telefonino in momenti drammatici però è utile. Ma quanti sono questi momenti? Pochissimi. Soprattutto: la gente fa delle brutte foto e senza significato. Sono spesso delle foto ricordo che a me, personalmente, non interessano.
Gianni Berengo Gardin – Come uno specchio. Fotografie con testi d’autore è visitabile da mercoledì a domenica dalle 11:00 alle 20:00;
lunedì e martedì chiuso. Il biglietto costa 6 euro. Tutte le foto esposte sono raccolte nel volume intitolato “Vera fotografia” in vendita a Fondazione Forma.
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