La principessa Viktória de Bourbon de Parme, patron di Save the children nei Paesi Bassi, punta a fare la differenza nelle vite dei bambini. E per ottenere grandi risultati, fa affidamento sui piccoli agricoltori.
Gilbert Houngbo. Per convincere i giovani a non abbandonare le campagne c’è bisogno di servizi, come internet
Per non lasciare nessuno indietro nonostante una popolazione in costante crescita, c’è bisogno di una trasformazione. E di servizi, come internet. Il presidente di Ifad, Gilbert Houngbo, racconta la sua visione per sostenere i piccoli agricoltori e le comunità a cui appartengono.
“Non si tratta di decidere quello che è possibile, ma quello che è giusto”, scrive Charles Mann, giornalista scientifico, nel libro The wizard and the prophet (Il mago e il profeta). Un testo che cerca di andare a fondo su un tema di fondamentale importanza, ovvero come sfamare una popolazione in costante crescita a fronte di un pianeta già sfruttato oltremisura. Nel 2050, infatti, i dati del dipartimento per gli Affari economici e sociali (Undesa) delle Nazioni Unite prevedono che saremo quasi dieci miliardi.
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Primo ministro del Togo, prima di approdare all’Ifad
Questa questione, cioè come deve cambiare il sistema agricolo per rispondere a un’esigenza di sostenibilità sia ambientale che sociale, l’abbiamo posta a Gilbert Houngbo, presidente dell’Ifad (International fund for agricultural development), il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, ed ex primo ministro del Togo, dal 2008 al 2012.
Houngbo ha speso oltre 30 anni cercando di migliorare la vita delle persone più vulnerabili del suo paese e del continente africano prima di essere chiamato a guidare l’agenzia delle Nazioni Unite il cui obiettivo è cercare di incrementare le attività e la resa agricola dei paesi che ne fanno parte.
“Innovation is key if we want to engage youth”#IFAD President @GHoungbo gives advice to young agri-entrepreneurs at @SEEDSandCHIPS in Milan.#SaC18 #youth #agriculture #innovation pic.twitter.com/vhyEPfbuEQ
— IFAD (@IFADnews) 10 maggio 2018
Lo abbiamo incontrato in occasione di Seeds&Chips, il summit internazionale su cibo e innovazione che si è tenuto a maggio a Milano. Da Houngbo abbiamo cercato di capire come sia possibile che dopo anni spesi dai governi nel tentativo di spingere le popolazioni rurali nelle aree urbane per consentire l’automatizzazione del settore in chiave industriale, ora siamo arrivati al punto in cui si cerca di ripopolare le campagne per far fronte a una domanda di cibo che cresce incessantemente.
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Cosa ne pensa del concetto di agroecologia per superare il modello attuale basato sullo sfruttamento delle risorse senza limiti? Può essere un modello sostenibile anche in termini di produzione?
Questa è un’ottima domanda che racchiude una questione complessa. Anzitutto dobbiamo renderci conto dei rischi che corriamo se non agiamo oggi per contrastare i cambiamenti climatici. I temi ambientale e climatico sono diventati parte del dna dei sistemi di produzione agricola. Quindi quello che stiamo cercando di fare ora è comprendere i limiti che ci pongono i cambiamenti climatici e come possiamo trasformarli in opportunità, che possono essere di business e di investimento.
Ed è qui che si inserisce il dibattito se l’agroecologia possa essere una valida alternativa all’attuale modello di sfruttamento intensivo. Credo che dovremmo, per prima cosa, capire cosa consideriamo intensivo. Prendiamo l’Africa come esempio. L’Africa ogni anno importa 35 miliardi di prodotti alimentari. E mi viene difficile affermare che questo è qualcosa di “intensivo”. Allo stesso tempo ci sono paesi, soprattutto tra quelli industrializzati, dove il 30-40 per cento della produzione alimentare viene sprecato. Qui sarei d’accordo nel dire che si tratta di sfruttamento intensivo. In ogni caso, essere “climate smart” in agricoltura è ormai imprescindibile. Se esiste un modo per rispettare l’ambiente senza sfruttare oltremisura la terra, ma massimizzando la produttività in base alla domanda, va perseguito.
Che ruolo hanno i piccoli agricoltori e come dovrebbero cambiare le imprese per evitare il depauperamento dei terreni?
Credo ci sia una complementarietà positiva tra i piccoli agricoltori e le aziende agricole. Io penso che le piccole aziende debbano diventare più competitive tra loro. I consumatori cercheranno sempre la qualità maggiore al prezzo più basso, è normale. Quindi è importante essere più competitivi introducendo tecnologie e innovazioni in agricoltura. A volte le piccole aziende riescono ad aumentare la propria attività e i sistemi alimentari industriali diventano un possibile mercato per loro, in cui possono vendere i loro prodotti per le varie lavorazioni. Su questo tema è in corso un dibattito ma non sempre le cose si escludono a vicenda, può esserci complementarietà. Infatti, per noi di Ifad è importante stimolare i piccoli agricoltori ad avere un approccio più aziendale, un po’ come succede negli altri settori privati al di fuori dell’agricoltura. Le piccole e medie imprese, ad esempio, creano lavoro ma questo non significa che non abbiano bisogno delle grandi aziende. E lo stesso vale per l’agricoltura.
Sempre più giovani, almeno nei paesi industrializzati, stanno pensando di tornare alla terra. Mentre nei paesi in via di sviluppo c’è ancora molto il mito della città come unica via per lo sviluppo personale. Che rapporto hanno le generazioni di giovani che si affacciano al mondo del lavoro con la terra?
Quando tengo dei discorsi chiedo spesso alle persone presenti nel pubblico, chi vorrebbe tornare alla terra e temo sempre che si alzino poche mani. Questo perché siamo in un punto in cui l’agricoltura non è più tanto attrattiva, o non lo è per nulla. Ma ci sono paesi in cui alcune persone preferirebbero spostarsi volontariamente da una grande città a una piccola e nelle aree rurali. Ed è per questo che sostengo fermamente che la nostra battaglia per il progresso e il miglioramento della vita dei contadini debba andare oltre alla semplice produzione agricola. Parlo di una trasformazione rurale.
Questo passa anche dall’introduzione di servizi essenziali, giusto?
Sì, parlo di introdurre i servizi di base e migliorare quelli esistenti, migliorare il sistema sanitario e l’accesso all’acqua. Dall’accesso alla cura per la malaria a scuole sempre più vicine e accessibili per i figli. Non sto parlando di lusso, ma di uguaglianza. Nelle aree rurali, in particolare, la felicità non si misura solo in termini di risorse finanziarie. Quindi avendo questi servizi di base sarebbe più facile per loro non avere bisogno di migrare nelle grandi città. Un altro esempio è la comunicazione. Se sapessi che in città è facile comunicare con Whatsapp mentre nelle zone rurali no perché manca la connessione alla rete dati, anche io sarei tentato di andare in città. Tutti vogliono e hanno bisogno di comunicare. Quindi anche due o tre ore di connessione al giorno, che a noi sembrano una cosa piccola, oggi vanno considerate un servizio essenziale. E non si tratta solo della dimensione sociale dei servizi. Si tratta anche di sostenere i giovani a creare cooperative e organizzazioni grazie alle quali possano avere accesso al microcredito. Quindi credo davvero che la trasformazione rurale deve far parte dell’equazione.
Quindi in che modo Ifad comunica e si relaziona con i settori pubblico e privato per facilitare questa trasformazione?
L’Ifad lavora con entrambi i settori. Concediamo prestiti senza interessi ai governi dei paesi a basso reddito, e con pochi interessi agli altri paesi. Allo stesso modo lavoriamo con il settore privato e altri attori come le banche regionali di sviluppo e realtà che estendono quello che facciamo, per essere sicuri che quando investiamo 1 questo diventa 3, poi 3 diventa 6 e così via. Un’altra cosa che facciamo con il settore privato è la formazione, come abbiamo fatto in Indonesia con i produttori locali, sperando che queste competenze vengano poi portate nelle zone rurali. Di recente abbiamo creato il progetto Abc (Agribusiness capital funds) concedere prestiti direttamente ai giovani, mettendo loro a disposizione strutture di assistenza tecnica per aiutarli a sviluppare progetti vendibili e finanziarli, oltre ai prestiti che facciamo ai governi. Tutti questi finanziamenti servono alla comunità, questo deve essere chiaro e il 51 per cento di chi ne beneficia è donna.
In che modo l’Ifad aiuta a difendere la biodiversità e lottare contro i cambiamenti climatici?
L’Accordo di Parigi sul clima risale al 2015, ma già tre anni prima Ifad aveva lanciato il progetto Asap (Adaptation for smallholder agricultural programme) che ha aiutato le attività agricole a fronteggiare i cambiamenti climatici. Molti dei nostri paesi donatori ci hanno aiutato a raggiungere 300 milioni di dollari in aiuti. È stato talmente un successo che abbiamo già lanciato Asap 2. Parte del nostro impegno è coinvolgere i giovani nei nostri prestiti e nei progetti che finanzieremo integrando temi quali quello della parità di genere, dell’alimentazione sana e sostenibile e dei cambiamenti climatici. Questi sono i pilastri su cui ci fondiamo.
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