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La sostenibilità nella moda non è compatibile con la compulsività, il pensiero di Vivienne Westwood Italia
Cosa implica un rallentamento della moda? Quali sono le priorità dei brand? E il digitale come si inserisce nel quadro post-Covid? Intervista a Giorgio Ravasio, country manager di Vivienne Westwood.
La moda sta cambiando, sta cercando una nuova dimensione, fatta di tempi e modi diversi. Più lenti. Il ritmo con il quale si è prodotto finora è diventato insostenibile, da un punto di vista ambientale e sociale. E la pandemia da Covid-19 ce ne ha fatto prendere atto, imponendo un cambio di mentalità nei brand, nelle istituzioni e nei consumatori. Ci sono diverse aree di intervento su cui i marchi devono lavorare. Prima fra tutte la catena di approvvigionamento, che i consumatori chiedono essere trasparente e tracciabile. Ma anche l’approccio alla produzione, che va sempre più verso la circolarità.
E poi il digitale: grande opportunità per migliorare le fasi del processo produttivo, ma soprattutto per la comunicazione con i clienti. Abbiamo chiesto a Giorgio Ravasio, country manager di Vivienne Westwood Italia – il brand dell’omonima stilista britannica che si batte per la sostenibilità –, quale dovrà essere l’approccio delle case di moda nei confronti di un futuro sempre più orientato alla sostenibilità.
Cosa pensa dell’esigenza di un rallentamento della produzione come auspicato da molti esponenti del mondo della moda, per intraprendere un percorso verso la sostenibilità? E cosa significa questo per Vivienne Westwood?
Nel nostro settore è consuetudine diffusa distrarre il pubblico con proclami che non rispecchiano la realtà delle cose. Se devo contestualizzare il discorso, da tempo la nostra azienda ha avviato un processo graduale ma determinato di riduzione delle sfilate, dei punti vendita, delle collezioni e dei modelli presenti stagionalmente all’interno della proposta commerciale. Stiamo addirittura pensando di eliminare la stagionalità a favore della unicità del prodotto, ma si tratta di trasformazioni che necessitano di molto tempo per la loro corretta implementazione pratica e affinché la loro applicazione sia economicamente possibile per l’azienda.
Per quanto riguarda il tema della sostenibilità, io credo che, nella sua reale accezione, essa sia incompatibile con il diffuso approccio da acquisto compulsivo che altro non è se non il malinconico risultato di una chiara pseudo-patologia sociale correlata alle insoddisfazioni personali enfatizzate dalla società del desiderio, costruita grazie a decenni di massiva pubblicità. Su queste dinamiche collettive sono cresciute e si mantengono ancora oggi le catene del fast-fashion e, d’altro canto, si sono incrementati i fatturati delle aziende proprietarie di brand che hanno fatto, e continuano a fare, del greenwashing a buon mercato, sfruttando, a piene mani, la loro potenza comunicativa.
Tolti questi cattivi esempi, se per rallentamento si intende utilizzo consapevole delle materie prime attraverso la loro trasformazione in prodotti unici realizzati in distretti artigianali o industriali rispettosi della dignità del lavoro e delle persone che sono occupate, allora credo che sì, questo sia un modo di intraprendere un processo virtuoso verso un modello di business sostenibile. La nostra azienda ha il suo principale azionista in una feroce attivista che si batte in maniera determinata e in prima persona per la salvaguardia del pianeta, eppure facciamo molta fatica ad applicare dettagliati protocolli di tracciabilità che ci consentano di verificare la liceità e il reale impatto di quello che facciamo rispetto al pianeta e alle persone. La complessa articolazione delle catene di fornitura non agevola certamente la messa in opera di questi virtuosi meccanismi.
E se facciamo fatica noi, che siamo sospinti dalla proprietà a perseguire processi integerrimi anteponendoli al profitto personale, mi chiedo come possano realmente farlo aziende che non hanno influencer così accanite alla loro testa, ma magari esosi azionisti che attendono lauti dividendi, in questa che è una vera battaglia per la conquista del futuro. Da parte nostra, tra le azioni più significative che stiamo mettendo in atto quest’anno insieme ad un gruppo di studio istituzionale, c’è lo sviluppo di un modello applicativo di gestione delle attività di analisi della tracciabilità dei capi, che speriamo possa diventare uno standard metodologico da mettere a disposizione delle aziende che intendano costruire supply chain tracciate e trasparenti, tramite il coinvolgimento di tutti gli attori a monte e a valle della catena.
Quali sono le priorità e come vanno affrontate?
Le priorità da affrontare, e qui penso soprattutto al nostro Paese, sono legate alla tutela del made in Italy, sinonimo nel mondo di qualità e di valore. Proteggere la produzione italiana significa salvaguardare le competenze e le abilità dei nostri distretti artigianali e industriali che rischiamo di far scomparire. Inoltre, produrre in Italia significa anche garantire un equo compenso e diritti al personale impiegato, cosa non semplice da verificare in altri Paesi. L’approccio slow al futuro è una diretta conseguenza della pandemia e di una specifica richiesta del mercato che diventa condizionante per l’intera filiera. Ripensarsi in un’ottica lenta è complesso e può risultare anche oneroso per molte aziende, perché se si riduce il consumo, va da sé che diminuiranno le vendite e ciò potrebbe non essere l’obiettivo di quelle realtà che devono rispondere a azionisti esigenti in termini di dividendi.
Tutti cercheranno di proclamarsi green ma, nella realtà, sarà compito del cliente verificare la credibilità di coloro che useranno la parola sostenibilità come mero strumento di marketing per fare ancora più di prima, fingendosi attenti al pianeta. La palla è nel campo dei consumatori che avranno il compito di scegliere consapevolmente i prodotti che intendono acquistare e non sarà un compito semplice perché non esistono strumenti di certificazione che garantiscano la qualità del prodotto in maniera chiara e univoca. La parola d’ordine è cultura. La conoscenza e la curiosità sono le armi per fare selezione nel mercato. Sarà faticoso ma chi sarà pigro, non saprà difendersi. Chi non possiede cultura sarà vittima passiva di un meccanismo di scelte indotte, che gli faranno soltanto credere di possedere una personalità che, invece, null’altro sarà che un passivo carrello del supermercato da riempire di surrogati di felicità.
Che ruolo ricoprirà il digitale nel settore moda e in che modo può aiutare un’azienda a essere più sostenibile?
Il digitale è uno strumento straordinario per agevolare una delle più importanti trasformazioni che andremo ad affrontare. La comunicazione cartacea è stata rapidamente sostituita dai social che stanno diventando sempre di più i magazine e i canali televisivi di proprietà e di gestione diretta dei brand. Sebbene possa sembrare una scelta a basso impatto economico, la gestione di questi nuovi strumenti ha costi molto significativi e necessità di nuove competenze e abilità che sarebbero state impensabili fino a pochi anni fa.
Un “aiuto” importante a questo cambiamento è stato dato dalla qualità sempre più bassa di molte testate giornalistiche che ha svilito il ruolo del giornalista rendendolo una sorta di “copia-incollista” e facilmente sostituibile da un ufficio stampa aziendale che, non appena si è trovato un tool a disposizione, ha scardinato l’esigenza del magazine patinato. Il digitale può anche essere uno strumento utile a progettare le collezioni in modo virtuale evitando sprechi nelle fasi di sviluppo, soprattutto per evitare la realizzazione di capi commercialmente non efficaci. C’è molto da fare in questo ambito. Del resto il nostro settore è culturalmente manifatturiero, fisico, materiale. Ma certamente si farà. È una grande sfida e anche una grande opportunità.
Da un punto di vista sociale, quale sarà l’impatto della digitalizzazione?
Dal punto di vista sociale la digitalizzazione è estremamente pericolosa perché scardina categorie e ruoli che, in passato, garantivano autorevolezza e rispetto. Oggi ciascuno si arroga il diritto di avere un’opinione e di paragonare il proprio vuoto punto di vista a quello di un esperto che vanta una comprovata esperienza professionale. Il rischio di un appiattimento dei valori e delle competenze generato dai social media è enorme e nell’agenda dei prossimi governi dovrà esserci un fortissimo investimento nella scuola, che non ha bisogno di tablet per capire le materie di studio ma di materie di studio per comprendere i tablet ed i loro contenuti.
Senza un forte investimento culturale, i processi in atto rischiano di toglierci molto di più di quello che ci daranno. Sotto il profilo aziendale, nel nostro caso, i social network sono una emittente importantissima di messaggi e di contenuti che possiamo veicolare velocemente e in tempo reale e rappresentano un canale non filtrato da interpretazioni di terzi che potevano inquinare o modificare il significato di azioni, parole o collezioni attraverso cui si sviluppa la nostra comunicazione al mondo.
Come si può costruire una filiera di produzione trasparente, sicura e come comunicarla ai consumatori?
È molto complesso, servirebbe un’enciclopedia. La moda è una filiera disgregata e mobile. Le aziende creano almeno due collezioni all’anno, oltre alle collezioni speciali e quelle a consegne anticipate per chi le fa, con moltissime categorie merceologiche. Fare una collezione significa pertanto coordinare competenze, materiali, abilità e attività molto diverse tra loro. Modificare le abitudini consolidate del settore significa scuotere metodologie applicate per anni e anni nel tentativo di condividere un approccio nuovo, votato al miglioramento continuo e a una decrescita del numero dei prodotti ma un incremento della loro qualità intrinseca.
Meno prodotto con una maggiore qualità, per durare nel tempo e giustificare un prezzo maggiore. Etica ed estetica devono camminare affiancate in questo percorso. Non ci sono scorciatoie. Sulla scia di questa rivoluzione paradigmatica, la necessità di una cultura produttiva basata sull’efficienza e sull’etica solleciterà un cambiamento in direzione di una gestione più razionale delle tempistiche di gestione del settore con il conseguente risparmio di risorse precedentemente dissipate nella alternanza tra tempi di vuota e tempi di piena operatività artigianale e industriale mettendo in discussione, in un processo che era già gradualmente in atto, la stagionalità, ennesimo ex dogma intoccabile della nostra filiera.
L’accorciamento, poi, di quella catena che era rappresentata dai canonici passaggi cliente-negozio-agente-brand-licenziatario-produttore-façonnista e che, attraverso la vendita online e l’atteggiamento centralista e acquisitivo dei brand più importanti, diventerà, immediatamente o gradualmente, un rapporto diretto tra il cliente e il brand. È un processo, probabilmente, irreversibile.
Questo meccanismo porterà, o dovrebbe portare, la catena del valore a diventare beneficio del cliente, attraverso un incremento del valore intrinseco del bene e della sua qualità percepibile, e del brand, suddiviso, più o meno equamente a seconda dei decision maker, tra l’azionista e i sui collaboratori, generando, per chi sarà veramente virtuoso, anche un visibile miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori coinvolti nel processo produttivo, generalmente i più deboli, come in quello gestionale e in quello distributivo. Quella del futuro sarà l’economia nella quale il cliente viene posto al centro dell’attenzione del brand che, governando tutta la profondità della sua area di business, dovrà imparare a considerare il cliente il suo asset variabile più importante e strategico. Per questa ragione dovrà assicurarsi di costruire con lui un rapporto sempre più leale e fedele.
Quali saranno i nuovi tempi della moda?
Nessuno ha la sfera di cristallo. Ma, da ottimista, mi immagino un futuro in cui la pianificazione dello sviluppo delle collezioni diventi meno sclerotica e più fluida e diluita durante l’intero anno solare senza concentrarsi in picchi di lavoro estenuanti e vuoti di produzione che creano inevitabili inefficienze operative ed economiche alle aziende che producono. Penso a un settore che valorizzi le abilità e crei istituti di formazione che ne possano perpetuare la trasmissione di generazione in generazione mantenendo nei distretti industriali italiani un bacino di competenze a far sventolare alta la bandiera della qualità del “fatto in Italia”.
Auspico la produzione di oggetti che si qualifichino per bellezza e qualità, realizzati con un ritmo più umano, nel rispetto di tutte le persone coinvolte nella filiera. Auguro alla moda di ritrovare quella fiducia in se stessa che è la prerogativa per promuovere una creatività identitaria invece di atrofizzarsi ad assecondare un mercato sempre meno creativo e più omologato, in perenne rincorsa di realizzare per primo il prodotto che, poco dopo, realizzeranno tutti.
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