Come la cura della montagna può essere decisiva per la corretta gestione dell’acqua
La montagna va ascoltata la tecnologia può aiutare: è la ricetta di Gianfranco Pederzolli, presidente dei consorzi di bacino imbrifero montano.
Le precipitazioni atmosferiche sono meno frequenti (anche se più intense) che in passato, i nostri acquedotti disperdono oltre il 4o per cento dell’acqua che trasportano, diverse zone del Paese già in inverno sono a forte stress idrico. I dati diffusi da Istat e Ispra in occasione della Giornata mondiale dell’acquaci ricordano che quello idrico è un problema da affrontare subito, e letteralmente a monte: le montagne, infatti, svolgono un ruolo cruciale poiché sono spesso luoghi di intensa precipitazione e raccolgono e rilasciano acqua dolce attraverso ghiacciai, accumuli nevosi, fiumi e sorgenti, contribuendo così alla disponibilità di acqua potabile o a uso irriguo. A patto però che gli interventi infrastrutturali sul territorio siano davvero efficaci e poco impattanti: ne parliamo con Gianfranco Pederzolli, che presiede la Federazione nazionale dei consorzi di bacino imbrifero montano. La Federbim riunisce ben duemila comuni montani italiani, e si batte per riconoscere un ruolo strategico alla montagna, a partire dalla gestione delle risorse idriche.
💧 Giornata Mondiale dell’#Acqua. In Italia nel 2023 ridotta del 18% la disponibilità di acqua rispetto alla media annua calcolata dal 1951. Siccità, record di precipitazioni e alluvioni. Situazione migliore rispetto al 2022. Leggi il comunicato stampa ⤵️https://t.co/QQC8ppCcho
— ISPRA – Ist. Sup. Protezione e Ricerca Ambientale (@ISPRA_Press) March 22, 2024
Si parla sempre di più di ‘rischio idrico’, quali sono le previsioni più pessimistiche che possiamo fare per l’Italia da qui a 10-15 anni, se non interveniamo? Davvero rischiamo che ampie fasce di popolazione si ritrovano senza acqua? Non c’è dubbio che la tendenza sia questa. Nel 2022, la risorsa idrica in Italia è diminuita del 31 percento rispetto al 2021: quattro volte il lago di Bolsena, nel Lazio, o sessanta volte il lago Trasimeno. Ed è un trend negativo registrato ormai da diversi anni. Nonostante un leggero miglioramento rispetto al 2022, con una disponibilità stimata di 112,4 miliardi di metri cubi contro una precipitazione totale di 279,1 miliardi di metri cubi, il Paese è ancora lontano dalla media annua storica. Nel 2022, la disponibilità di risorsa idrica era scesa al minimo storico dal 1951, toccando i 67 miliardi di metri cubi: appena il 50 per cento della media annua. Ma, francamente il problema mi sembra così grande che discutere se la crisi definitiva avvenga tra 10, 15 o 20 anni sia perfino fuorviante.
Troppe le variabili in campo? Intanto nessuno lo sa e può dirlo veramente. I modelli statistici valgono per aiutarci a valutare le tendenze ma il pericolo del “cigno nero” (un evento potenzialmente incombente ma non previsto e dagli effetti rilevanti, ndr) è sempre in agguato. Una siccità generalizzata come quella alla quale abbiamo assistito nei due anni precedenti a questo, se avesse perdurato o si ripresentasse nuovamente nel breve periodo, finirebbe certamente per accorciare l’orizzonte. Mentre le piogge e le nevicate in quota di questa coda invernale diciamo che ci aiutano ad affrontare un po’ più serenamente la prossima estate, ma non devono assolutamente farci rallentare l’impegno ad intervenire con tutte le misure che possiamo per cercare da un lato di mitigare l’impatto sulle emissioni climalteranti e dall’altro a prepararci con strategie di adattamento.
C’è una questione climatica che incombe sull’acqua e una questione infrastrutturale (vedi dispersione e bacini di raccolta): possiamo intervenire efficacemente su tutte e due? Possiamo ma, soprattutto, dobbiamo intervenire. Certo è più facile farlo sul sistema infrastrutturale per due motivi. Il primo è che la questione climatica dipende solo in minima parte dal nostro sistema paese ma anche dal sistema europeo. L’Europa pesa pochissimo in termini di impatto sul clima rispetto al resto del mondo, soprattutto Stati Uniti, Cina e India e quindi il rapporto tra lo sforzo per ridurre le emissioni rischia di essere sproporzionato e, di fatto, poco efficace rispetto all’impatto che può generare su un problema che è globale.
Il secondo motivo è che la componente infrastrutturale invece è proprio sotto il nostro diretto controllo, e affrontarla significa produrre una strategia di adattamento alla crescente carenza a cui andiamo incontro molto più efficace. Mi spiego: tappare i buchi agli acquedotti ci aiuterà a parità di consumi ad avere molta più acqua disponibile. Costruire invasi per raccogliere l’acqua meteorica. ma anche per fermare in quota l’acqua proveniente dallo scioglimento accelerato dei ghiacciai, ci permetterà di mettere acqua in “cascina” per i periodi di crisi. Naturalmente gli investimenti infrastrutturali dovranno essere fatti in accordo con i territori.
Voi vi occupate di quelli di montagna, che sono tra i più colpiti dai cambiamenti in atto. La montagna, me lo lasci dire, ha già pagato un prezzo altissimo al processo di infrastrutturazione idroelettrica nel secolo scorso. Ora quei grandi traumi che hanno impattato sul suo paesaggio, sulla sua struttura sociale, sulle sue vocazioni e che hanno anche prodotto immani tragedie come quella della diga del Gleno nel bergamasco, o in provincia di Alessandria quella del Molare, per finire al Vajont, sono lontani e in qualche caso poco conosciuti dalla parte di paese che beneficia di più della acqua che quelle grandi infrastrutture hanno provato a gestire. Ma non dobbiamo dimenticare la grande lezione che ci hanno dato. Per questo insisto sul fatto che non si deve intervenire con nuove infrastrutture se non in armonia con i territori. Ciò non significa cedere alla logica nimby. Piuttosto significa ascoltare e dare peso alla conoscenza dei fenomeni locali di coloro che la montagna la vivono e che spesso (quasi sempre) sono in grado di elaborare soluzioni più avanzate anche delle tecnologie più sofisticate.
A 60 anni dalla tragedia del #Vajont, onoriamo la memoria delle quasi 2mila vittime che persero la vita quella notte. Il passato sia da monito per continuare a lavorare per la sicurezza delle comunità. La memoria sia il nostro dovere verso il passato e guida per il futuro. pic.twitter.com/TUpJLKNUag
Insistete molto sulle opportunità offerte dall’innovazione tecnologica per affrontare il rischio idrico: a che soluzioni pensate?
Fra le tante soluzioni disponibili, quelle più vicine al mondo dei Bacini imbriferi montani che la Federbim rappresenta ci sono sicuramente quella di investire sugli impianti idroelettrici utilizzando turbine ad alta efficienza per migliorare la produzione a parità di acqua prelevata. E poi migliorare i sistemi di stoccaggio dell’energia, incentivare sistemi di ripompaggio dell’acqua in quota per la produzione idroelettrica utilizzando però energia da fonti rinnovabili come ad esempio le fuel cell ad idrogeno. In questo contesto bisogna tenere a mente che il pompaggio nell’idroelettrico può ora essere valorizzato maggiormente rispetto ad un tempo, soprattutto in Italia. Dal pompaggio notturno si è passati al pompaggio diurno, e questo è stato possibile avendo incrementato la produzione elettrica del solare e dell’eolico, sviluppata in Italia in questo ultimo ventennio. È anche questa una forma di razionalizzazione dei consumi elettrici e di conseguenza di una gestione più attenta dell’acqua.
Sugli altri terreni di sfida che riguardano meno da vicino l’utilizzo energetico dell’acqua segnaliamo l’importanza di praticare un monitoraggio accurato e continuo delle reti idriche. Grazie all’implementazione di tecnologie avanzate come l‘Internet of things e le Recording Telemeter Unit (strumenti per per la rilevazione a distanza di dati e misure, ndr), è possibile monitorare in tempo reale l’intera rete di tubature dell’acqua, rilevare tempestivamente perdite d’acqua e anomalie nella distribuzione, consentendo interventi rapidi ed efficaci per minimizzare gli sprechi….
Di recente la Cassazione ha stabilito che la gestione di un ghiacciaio, per esempio per gli impianti o concessioni, incide sull’acqua pubblica e dunque rientra a tutti gli effetti nel demanio pubblico: che prospettive apre questa sentenza? Sancisce principio di buon senso difficilmente contestabile. Tutte le cose che abbiamo detto convergono sul punto che si parla di un bene prezioso e scarso, al centro di un processo molto accelerato di crisi che investe l’intera collettività. E i ghiacciai ne sono certamente il più importante serbatoio. Non c’è dubbio che la trattazione delle questioni connesse al suo utilizzo debbano essere affidate a soggetti competenti, non solo sotto il profilo squisitamente amministrativo – che è una questione che non discuto – ma soprattutto dal punto di vista tecnico-scientifico e, me lo lasci dire, anche sociale.
Per l’esperienza che ci riguarda, presso il Tribunale superiore delle acque pubbliche (che ha giurisdizione sulle questioni relative alla gestione, all’uso e alla tutela delle risorse idriche pubbliche, nonché sui conflitti tra soggetti privati o pubblici in merito all’uso delle acque, ndr) si è consolidata una giurisprudenza rispettosa dell’importanza della risorsa acqua: non solo sul piano strettamente giuridico amministrativo ma anche consapevole dei riflessi ambientali, economici e sociali della materia. Tutto ciò è sicuramente figlio di una specializzazione dei magistrati che reputo indispensabile per trattare una materia così delicata.
Dalla Basilicata alla Sicilia, passando per la Puglia: cambiamenti climatici e infrastrutture non all’altezza stanno creando una situazione insostenibile.
Un lungo periodo di siccità, una posizione geografica sfavorevole, infrastrutture idriche carenti. Così Città del Messico rischia di trovarsi senz’acqua.
Mai le precipitazioni sono state così scarse in Catalogna. Dichiarato lo stato d’emergenza e ipotizzate soluzioni estreme per garantire acqua ai cittadini.