Quest’anno potrebbe essere diversa. Potrebbe non scivolarci addosso come acqua fresca. La Giornata mondiale del rifugiato, che si celebra il 20 giugno, potrebbe riuscire questa volta a scalfire qualcosa della nostra scorza di abitudine, non perché sia diversa la giornata o il tema, ma perché siamo noi “spostati”, se non feriti, da quello che ci è capitato negli ultimi mesi.
Non è tanto interessante se siamo diventati migliori o peggiori di prima (del virus assassino), lasciamo la profezia ai tuttologi. Quanto invece il fatto che nessuno, leale anche solo un filo con se stesso, può negare di essere stato investito dalla pandemia, dalla consapevolezza di essere circondati da una minaccia, là fuori, pervasiva, invisibile, che ci ha spinti a nasconderci per giorni e giorni in casa. #StayHome: se vuoi sopravvivere, stai a casa, dettava l’hashtag più diffuso. E alla percezione della minaccia rappresentata dalla Covid-19 si è aggiunto poi uno strato di incertezza che entra di traverso in ogni nostro gesto o istante: ci sarà una seconda ondata? Non ci sarà? Che ne sarà del lavoro? Della scuola? Di domani?
Giornata mondiale del rifugiato 2020, alcuni dati
Eravamo diventati abili a incasellare le nostre agende nelle tabelle Excel, ma quelle ci sono letteralmente saltate per aria in mano. Ci siamo messi in fuga da un virus e scoperti esposti a un contesto di fragilità e di imprevisti. Ecco: per celebrare la Giornata mondiale del rifugiato 2020 basterebbe andare a fondo di questa nuova scoperta, provare anche solo a immaginare noi stessi, quelli abbrutiti nelle settimane più dure del lockdown, ma senza un tetto, senza una casa, senza muri solidi.
Allora ci apparirebbe chiara la fotografia di questo Refugee day, che vuole fare memoria di una realtà che sta raggiungendo vertici inediti: 70,8 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese nel 2018. Di queste, circa 25,9 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai diciotto anni, stando ai dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Ogni tre secondi una persona è costretta ad abbandonare la propria casa per guerra, carestia e fame, persecuzioni religiose o etniche, disastri ambientali.
L’esperienza di chi prende i suoi bambini e parte con il minimo indispensabile resta lontana mille miglia dalla nostra quarantena sul divano, tra serie tv e “aperizoom”. Ma qualcosa in più possiamo intuire di che cosa voglia dire avere paura, desiderare dal profondo di separarci dal mondo con mura salde, un rifugio dove far riposare la propria famiglia, preoccuparsi di avere il lavoro per poterla mantenere. Possiamo forse immedesimarci più agevolmente in chi vorrebbe credere che quello che gli accade sia solo un incubo da cui si sveglierà presto.
Tra tutti coloro che vivono in questa condizione alla data del 20 giugno 2020, si staglia per quantità insostenibile di dolore il profilo dei siriani, rifugiati oltre oceano o nei paesi vicini alla Siria, o sfollati all’interno del loro Paese. Si portano addosso il carico di una guerra che dura dal 2011, e ora è arrivata in aggiunta la pandemia.
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Gli organismi internazionali e i grandi donatori assegnano fondi e programmi per i rifugiati. Basti citarne uno tra tanti: Back to the future, finanziato dal fondo fiduciario regionale dell’Unione europea in risposta alla crisi siriana (il Madad), è un progetto pluriannuale, implementato da un consorzio di ong composto da Avsi, Terre des hommes Italia e War child Holland con uno spettro di attività diverse, integrate, che sta permettendo ai piccoli siriani rifugiati in Libano di andare a scuola, di essere protetti, di essere accompagnati a integrarsi nella comunità che li accoglie in attesa di poter tornare a casa.
A causa dell'emergenza Coronavirus i centri educativi "Back to the Future" in Libano sono chiusi da febbraio: con…
Ma tutti questi programmi e azioni internazionali resteranno sempre insufficienti a sostenere il loro percorso, l’accoglienza, l’integrazione nelle nuove realtà o il loro ritorno in patria, se non scatterà un cambio di passo a tutti i livelli. Che in qualche modo è quello che propone il tema della giornata di quest’anno (o forse siamo noi che vorremmo tradurlo così): “Take a step”, facciamo un passo, cioè cambiamo posizione, cambiamo sguardo sul rifugiato, cambiamo modo di leggere le notizie che lo riguardano, incuriosiamoci sull’origine del suo andare e della sua ricerca. Forse adesso potrebbe riuscirci più facile.
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