Giornata mondiale dei popoli indigeni: i custodi delle foreste e della biodiversità

Il 9 agosto è la giornata mondiale dei popoli indigeni. Un promemoria che ci ricorda l’importanza di difendere questi popoli per la loro cultura, le loro origini ma anche per il nostro Pianeta.

Guarda il fiume, i capelli neri grondano acqua sulle spalle nude. Le gocce evaporano al sole, una ad una. “La foresta, il fiume, la pioggia. I morti si seppellivano con tutte le loro ricchezze e il fiume era sacro. Sì, un tempo avevamo ricchezze”, si volta verso di me. “Una volta avevamo oro e abbondanza, poi sono arrivati gli europei e se li sono presi loro”. Resta in silenzio per un poco, poi si china a raccogliere una pietra. “Non solo l’oro. Si sono presi proprio tutto”. Si passa una mano fra i ciuffi scuri, corti, tagliati alla moda dei calciatori occidentali, recupera un paio di stivali di gomma e risale il greto per un sentiero invisibile, inoltrandosi nella foresta, quella sì, per fortuna, gli appartiene ancora. È un ragazzo indigeno dell’America centrale, che pur conoscendo la società predominante ha scelto di vivere l’identità e la cultura dei suoi antenati.

Quel tutto pronunciato a mezzavoce va ben al di là di quanto ha fisicamente subìto il suo popolo nei secoli. Quel tutto oggi implica che le comunità indigene sopravvissute ai massacri coloniali, alla distruzione delle loro terre e alle malattie, devono fare i conti con i modelli sociali e i sistemi di credenze della società dei consumi, che si infiltrano più o meno apertamente nelle loro identità, mettendo in crisi stili di vita e culture di migliaia di anni. “Ho più paura di Tiktok che dei bracconieri”, mi confessa un’anziana donna del popolo Quiché, in Guatemala.

Se sai chi sei puoi lottare per difenderlo, forse fino alla morte, ma puoi lottare. Se perdi te stesso sei già morto. E con te il tuo popolo.

Non è raro purtroppo, nelle aree più povere e devastate dell’America Latina, imbattersi in ragazzini scheletrici e disidratati con gli occhi fissi allo schermo di un vecchio cellulare: muoiono di fame davanti a Tiktok. Bevande gasate e snack dolci o salati, magliette da calciatori e bigiotteria da mettere al collo o nei capelli diventano il sogno di bambini e ragazzi indigeni, spesso emarginati dai coetanei perché hanno un’altra religione, parlano un’altra lingua e sanno pescare, cacciare, cantare, raccontare storie, ma non hanno mai imparato a usare un computer, guidare una macchina, o semplicemente a ballare nei locali e costruire case di cemento e mattoni. La società dei consumi vende illusioni e la cultura occidentale discrimina i saperi, facendo incancrenire dall’interno tradizioni millenarie – con il sostanzioso contributo, bisogna dire, delle multinazionali e dei narcotrafficanti.

“Cosa dobbiamo fare? Noi ci siamo dati la regola che non si può sposare una persona non indigena, perché con questa scusa ci hanno imbrogliati e portato via terre e inquinato la nostra cultura. Ma alcuni dei giovani, quelli che più difendono i nostri diritti, studiano fuori, vanno a lavorare fuori e poi si innamorano di qualcuno non indigeno e allora o rinunciano all’amore o rinunciano a sé stessi.”

“Scambiamo banane, platano, yuca, pesce con sale, olio e zucchero, le uniche cose che non produciamo. Ma le leggi del mercato sono le vostre. Se non le impariamo ci annientate, se le impariamo vuol dire che accettiamo che ormai sono quelle a comandare”.

“Io sono orgogliosa di essere indigena, ma vorrei viaggiare, scoprire il mondo e poi tornare e difendere la mia terra e la mia identità dopo averne conosciute tante altre. Perché non posso farlo?”

Sono solo alcuni dei problemi che si trovano a fronteggiare molte comunità indigene, alla ricerca di un rapporto sano con la società globalizzata, oltre a dover sopravvivere in un mondo predatorio e violento che minaccia continuamente le loro foreste, i loro mari, le loro terre e le loro risorse. Si tratta di una complessità molto ardua da districare, perché i modelli culturali predominanti sono quelli occidentali e una volta che ci si entra in contatto è davvero difficile non restarne schiacciati.

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Indigeni Kayapo, Brasile © Allison Sales/picture alliance via Getty Images

Isolarsi per sopravvivere

È per questo motivo che alcune comunità hanno deciso di isolarsi dal cosiddetto “mondo esterno”, o di ridurre al minimo i contatti con esso. Sono state definite, sempre secondo i nostri schemi concettuali, Indigenous Peoples in voluntary isolation and initial contact, alla lettera: “Popoli indigeni in isolamento volontario e contatto iniziale”. Sono circa duecento popoli, diecimila persone in tutto, e si trovano prevalentemente nell’area dell’Amazzonia, in India, Indonesia e Papua Nuova Guinea. Non si tratta di popoli incontattati che non sanno dell’esistenza del resto del mondo, bensì di comunità che hanno avuto un contatto, spesso violento, con la società maggioritaria e hanno deciso per tutelarsi di isolarsi da essa o di mantenere rapporti saltuari o intermittenti. Per questo fa molto discutere, soprattutto fra le comunità indigene, anche l’uso del termine “volontario”: l’isolamento è una reazione alla pressione della società sui territori e sui diritti indigeni, non si tratta dunque di una libera scelta ma di una questione di sopravvivenza.

Questi popoli mantengono integri i loro modelli organizzativi e culturali, le loro lingue e le loro abitudini di mobilità, di caccia e raccolta. Sono quasi sempre nomadi o semi-nomadi, vivono di sussistenza e tramandano di generazione in generazione le tradizioni ancestrali e le conoscenze antiche del mondo naturale, da cui ricavano tutto ciò di cui hanno bisogno per nutrirsi, vestirsi, curarsi, spostarsi e abitare. Sono legati in maniera inscindibile al territorio: deforestazione, attività minerarie, agricole e industriali, inquinamento o alterazione dello stato di salute della terra e degli habitat minacciano direttamente la loro sopravvivenza. I popoli della foresta amazzonica, come i Mashco Piro in Perù, stanno scomparendo a causa della deforestazione, che sta ormai raggiungendo anche le aree più remote. In India invece è diventato noto il caso degli Shompen, che rischiano di essere annientati perché il governo indiano vuole trasformare la loro isola, Great Nicobar, in un’enorme città dotata di porto, base militare e vari centri industriali. L’isolamento li porta a essere anche particolarmente fragili fronte alle malattie occidentali, che come già successo in passato possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere civiltà.

I diritti e l’importanza dei popoli indigeni

Oltre a trovarsi in una situazione di forte vulnerabilità, le comunità indigene isolate non condividono i codici di comunicazione e relazione della società dei consumi e non possono quindi difendere i loro stessi diritti in maniera diretta. Fondamentale a questo proposito sarebbe l’applicazione delle molteplici convenzioni e dichiarazioni già esistenti che riconoscono i diritti di queste popolazioni (International labor organization indigenous and tribal people convention, Convention of biological diversity, Un declaration on the rights of indigenous people, Esczù Agreement) alla libertà, alla pace, alla sicurezza, all’identità e di non essere soggette ad assimilazioni forzate o distruzione della loro cultura. Altrettanto importante è garantire l’integrità dei loro territori, come evidenziava già dieci anni fa la Commissione interamericana dei diritti umani, perché c’è una relazione diretta tra l’autodeterminazione dei popoli indigeni e il diritto alla terra e alle risorse. Questo concetto vale ancora di più per i popoli isolati, perché per loro un campo o una porzione di fiume o di foresta può essere l’unica fonte di sostentamento per numerose famiglie, o un luogo sacro e vitale per l’esistenza stessa della comunità.

I popoli isolati sono una minoranza di quell’appena cinque per cento della popolazione mondiale che appartiene a comunità indigene e che tutela, sola, più dell’ottanta per cento della biodiversità mondiale. Eppure, distruggere l’identità e i modelli esistenziali di queste comunità significa distruggere una parte della nostra umanità e del nostro mondo. Perciò la Giornata mondiale dei popoli indigeni del 2024, che si celebra il 9 di agosto, è stata dedicata alle comunità in “Voluntary isolation and initial contact”, al loro ruolo di custodi delle foreste e della biodiversità e al loro prezioso contributo alla diversità linguistica e culturale del pianeta. È un segnale forte che evidenzia l’importanza di ascoltare la voce, seppure indiretta, di queste persone e di smettere di considerarle come rimasugli di un nostalgico ed esotico passato destinato a scomparire, riconoscendole piuttosto per quello che sono: custodi del nostro presente ed esempi di futuri possibili.

Avete mangiato, bevuto, consumato. Avete bruciato, tagliato, inquinato e ora vi fate la guerra e vi distruggete gli uni con gli altri. Per anni ci avete assordati con le vostre macchine rumorose e le vostre verità indiscutibili. Adesso venite a chiedere aiuto. Non dovete fare altro che ascoltare, per una volta, la nostra voce. Ascoltate la voce dei popoli dei mari e delle foreste. Perché forse qualcosa da insegnarvi ce l’abbiamo anche noi

Miranda, membro dei Kalinago

È un promemoria, l’ennesimo, dell’importanza vitale di difendere i popoli indigeni e il loro diritto di autodeterminarsi. Che decidano di vivere isolati o di arrischiare il complesso rapporto con la società maggioritaria, è compito di tutti rispettare le loro scelte e di lottare non al loro posto, ma al loro fianco.

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