Si è concluso il biennio di sperimentazione del reddito di cittadinanza in Finlandia. Nel bilancio pubblicato dal governo non mancano le sorprese.
I giovani non vogliono più lavorare per le compagnie petrolifere
Si possono offrire stipendi alti, trasferte, benefit. Ma, sempre più spesso, tutto questo non basta. Per convincere un giovane a scegliere di lavorare per lei, un’azienda deve anche dimostrarsi responsabile nei confronti dell’ambiente, della società, del territorio. Le compagnie petrolifere, di fronte a questa sfida, arrancano: e fanno sempre più fatica ad attirare nuovi talenti.
Si possono offrire stipendi alti, trasferte, benefit. Ma, sempre più spesso, tutto questo non basta. Per convincere un giovane a scegliere di lavorare per lei, un’azienda deve anche dimostrarsi responsabile nei confronti dell’ambiente, della società, del territorio. Le compagnie petrolifere, di fronte a questa sfida, arrancano: e fanno sempre più fatica ad attirare nuovi talenti.
“I giovani non pensano solo alla carriera”
L’avvertmento arriva da un articolo del Financial Times, che cita una serie di studi e testimonianze degli addetti ai lavori. Tutti hanno lo stesso minimo comun denominatore, che il numero uno di BP Bob Dudley, nel corso di una conferenza a fine ottobre, ha riassunto così: “La generazione dei millennials non vuole soltanto fare carriera: si aspetta anche di dare il proprio contributo positivo alla società”. Stiamo parlando dei ragazzi nati tra i primi anni Ottanta e i primi anni Duemila. Quelli che stanno vivendo il momento più dinamico della propria vita professionale, perché hanno appena finito di studiare o sono nel pieno delle loro prime esperienze lavorative.
Quello di attirare i giovani più brillanti, chiarisce il quotidiano finanziario britannico, non è certo un problema nuovo. Ci si scontrano quotidianamente i responsabili delle risorse umane di tutto il mondo. Ma la sfida diventa molto più ardua se si lavora per un settore che già di per sé è ritenuto vecchio e poco sostenibile.
14 millennial su 100 rifiutano le compagnie petrolifere
La ricerca Millennial al lavoro, pubblicata da PricewaterhouseCoopers, nell’autunno del 2011 ha interpellato più di 4.300 giovani in 75 Paesi. All’epoca, tutti avevano non più di 31 anni e si erano laureati tra il 2008 e il 2011. Il quadro che ne emerge è quello di persone che vogliono – comprensibilmente – garantirsi uno stipendio e una crescita professionale, ma non si accontentano solo di questo: vogliono anche poter credere in quello che fanno. Il 58 per cento degli intervistati, infatti, si dice disposto a rifiutare un lavoro in un determinato settore soltanto perché quest’ultimo ha una reputazione negativa. Le più criticate sono le compagnie petrolifere: addirittura il 14 per cento dei millennial si rifiuterebbe di lavorare per loro. Si tratta della percentuale più alta in assoluto, prima di difesa, assicurazioni (invise soprattutto ai cinesi), amministrazione pubblica (quasi un africano su due le evita). Il 59 per cento dei neolaureati va esplicitamente alla ricerca di datori di lavoro che siano in linea con i propri valori; c’è da dire, però, che questa percentuale è calata parecchio in seguito alla crisi finanziaria.
Il lavoro del futuro
Ma cosa vogliono i lavoratori del futuro e come faranno le aziende ad adeguarsi? Una risposta arriva dal report “Workforce futures”, commissionato da Ubs.
Innanzitutto, avranno mansioni diverse: il 47 per cento delle figure professionali che esistono attualmente nelle economie avanzate corrono un alto rischio di essere sostituite dalle macchine nell’arco dei prossimi vent’anni. E stiamo parlando di quelle posizioni in grado di garantire un reddito fisso nella fascia dei 35.000 euro l’anno. Ma cambieranno anche gli orari, i luoghi di lavoro, le relazioni tra i responsabili e i loro sottoposti. Entro il 2020 – continua il report – solo una persona su quattro lavorerà in un ufficio tradizionale. Gli studiosi parlano di Bricolage Living per indicare questo stile di vita dinamico, multiculturale, che rifiuta gli standard a favore di una carriera “on-demand”.
I lavoratori di domani, continua la ricerca, non saranno tutti uguali. I Flexapreneurs, che mettono la flessibilità al primo posto, sono “figli” dell’esplosione del numero di freelance, che in Europa tra il 2004 e il 2013 è passato da 6,2 a 8,9 milioni. I Culture-hackers si sono abituati fin dall’infanzia a manipolare e modificare qualsiasi prodotto o servizio per adattarlo a pennello alle loro esigenze e si aspettano di fare lo stesso al lavoro, con buona pace delle gerarchie. I Pro-pragmatists sono disillusi sulla possibilità di raggiungere il benessere economico, ma cercano di non sacrificare il proprio tenore di vita ricorrendo alla sharing economy e ai modelli peer-to-peer.
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