Il racconto delle foreste da scoprire durante l’ultima settimana del Giro d’Italia. La nostra personale “maglia verde” è stata assegnata a Davide Bais.
Giro d’Italia 2023, le foreste che val la pena seguire nella seconda settimana
Il racconto delle foreste da scoprire durante la seconda settimana del Giro d’Italia. Assegnata anche la nostra personale “maglia verde” a Primoz Roglic.
Si ringrazia il prof Marco Borghetti (Sisef, Università degli studi della Basilicata) per il racconto relativo all’Abetina Reale.
Con la cronometro Savignano sul Rubicone-Cesena si è conclusa in modo imprevedibile la prima settimana di Giro d’Italia, che ha visto dapprima la maglia rosa tornare sulle spalle del grande favorito, il belga Remco Evenepoel, che tuttavia, subito dopo, ha dovuto clamorosamente lasciare la corsa dopo essere risultato positivo al Covid durante un controllo di routine. Classifica rivoluzionata quindi, con la maglia di capo classifica generale che passa al gallese Geraint Thomas.
Dopo la fuga arrivata al Lago Laceno, per cinque giornate la maglia rosa è stata indossata da Andreas Leknessund, ciclista norvegese originario di Tromsø. Una prima curiosità forestale vogliamo dedicarla proprio a questo corridore, unica maglia rosa della storia del Giro ad essere nato a nord del circolo polare artico. A Tromsø infatti si trova l’Arctic-Alpine Botanic Garden, l’orto botanico più a nord del mondo. Qui, all’interno del Campus universitario, sono conservate piante artiche e alpine provenienti da tutto l’emisfero settentrionale: immaginate che sogno visitare questo giardino assieme ai ricercatori del Centro di Ricerca per il Clima e l’Ambiente della “Arctic University”, per poi godersi l’aurora boreale (Tromsø è anche uno dei luoghi migliori per osservare questo affascinante fenomeno).
Ma torniamo all’Italia e al Giro, perché dopo la prima settimana di corsa abbiamo deciso anche noi di assegnare una particolare maglia al di fuori della classifica ufficiale (ma non meno ambita!): la “maglia verde bosco”, per il corridore che ha regalato più emozioni scattando all’interno di una foresta. La nostra scelta è ricaduta sullo sloveno Primoz Roglic, che dopo la noiosa tappa del Gran Sasso, dove i big non hanno dato spettacolo, in quella successiva ha finalmente lanciato una sfida ai rivali, scattando nel bosco di querce adiacente al Monastero dei Cappuccini di Fossombrone: una vera azione d’attacco degna del nostro “Giro Forestale d’Italia”. Chissà se Roglic riuscirà a mantenere fino alla fine la nostra maglia verde oppure se la perderà all’ombra dei boschi alpini.
Ma iniziamo il racconto delle foreste da scoprire durante la seconda settimana di corsa.
Giro d’Italia tra abeti bianchi d’Appennino e pinete costiere
Al pari dell’antica “Via Vandelli”, storica strada lastricata fatta costruire dal duca di Modena nel ‘700 come strategico collegamento fra la Pianura Padana e il Tirreno, così la terza tappa del Giro attraverserà, martedì 16 maggio, il Passo delle Radici, punto culminante del percorso che porterà la carovana rosa da Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, a Viareggio. Dopo aver attraversato querceti collinari e faggete, lassù, vicino al crinale appenninico, le ruote dei campioni sfioreranno delle preziose foreste di abete bianco, come quella denominata “Abetina Reale”, sulle pendici del Monte Cusna.
L’abete bianco è una delle specie forestali italiane più emblematiche e importanti, coltivato fin dal medioevo nei territori dei grandi monasteri come quelli, in Toscana, di Vallombrosa e di Camaldoli. È un grande albero, l’abete bianco. Può arrivare anche a cinquanta metri di altezza ed è presente su tante montagne europee: dai Pirenei ai rilievi della penisola balcanica, passando attraverso le Alpi.
Sull’Appennino, però, la sua presenza è oggi rarefatta, ed è per questo che le popolazioni che si trovano sparse qua e là (come quella dell’Abetina Reale) sono importanti e studiate con grande attenzione. L’abete bianco può infatti diventare molto prezioso per arricchire la biodiversità forestale e rendere i nostri boschi più resilienti al cambiamento climatico. Ma affinché si possa gestire la foresta in questa direzione, favorendo una ricostituzione del bosco di abete dove questo oggi non c’è più, occorre prima capire quali sono le caratteristiche ideali per resistere al clima del futuro: meglio gli abeti “locali”, che crescono da sempre in quest’angolo di appennino? O forse quelli provenienti dal sud italia, che potrebbero essere più abituati alle siccità? È quanto stanno cercando di capire due progetti finanziati dal Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. Quello guidato da Andrea Piotti del Consiglio nazionale delle ricerche ha portato alla scoperta inaspettata che nell’Abetina Reale, pur trattandosi di una piantagione effettuata alcuni secoli fa, gli oltre 300 abeti analizzati sono nati da semi raccolti sul posto, quindi pienamente appartenenti alla flora locale. Quello guidato dal Forest Lab dell’Università di Milano ha invece mostrato che gli abeti più meridionali, se piantati in Appennino, hanno effettivamente risposto meglio di quelli locali alle siccità più recenti.
Difficile invece dire chi, tra i corridori, resisterà meglio al clima pazzo che da sempre caratterizza il Giro d’Italia, che alterna giornate fredde e piovose ad altre caldissime e soleggiate.
Dopo il passaggio appenninico questa tappa arriverà (probabilmente in volata, o chissà, magari dominata da una fuga) proprio di fronte a un’altra foresta: la pineta di Viareggio, un bosco anch’esso interamente creato dall’uomo che tuttavia conserva una storia interessante. Qui, agli inizi del ‘700, la pianura costiera era ovunque caratterizzata dalla presenza di acqua stagnante, da terreni incolti e da boschi di specie mediterranee dominati dal leccio. La cosiddetta “macchia di marina” era da secoli tutelata per finalità sanitarie, perché ritenuta una difesa contro la malaria che imperversava nella pianura, ma anche per finalità di protezione dei coltivi dell’entroterra dagli impetuosi venti marini.
Quando la realtà sanitaria migliorò, a partire dagli anni ’40 del ‘700 venne deciso un grande progetto di bonifica basato anche sul graduale abbattimento di buona parte dei boschi naturali. Il territorio venne suddiviso in tanti piccoli poderi recintati e delimitati da vie e fossi di scolo e alcune di queste sezioni, quelle più vicine al mare, vennero gradualmente seminate a pini marittimi e domestici, specie ad accrescimento più rapido dei lecci, ritenute più efficaci per schermare i venti (in particolare il pino marittimo) e interessanti non solo per il legno ma anche, nel caso dei pini domestici, per i semi commestibili e preziosi: i pinoli.
Queste pinete, molto diffuse lungo tutta la costa toscana, oltre alle funzione di protezione divennero così un’importante risorsa economica, in particolare proprio per la produzione di pinoli: tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento la Toscana compariva tra i primi produttori mondiali di questo particolare alimento di origine forestale. Non è sicuro se il pino domestico, ben riconoscibile dalla sua bella chioma “a ombrello”, sia una specie autoctona del nostro Paese, certo è che fu favorito e coltivato abbondantemente fin dai tempi dei Romani e che ancora oggi rappresenta un vero e proprio simbolo del nostro paesaggio costiero, da conservare e gestire con attenzione. Purtroppo oggi la produzione di pinoli è molto ridimensionata a causa di un insetto di origine nordamericana, il “cimicione”, che si nutre proprio dei semi di pino domestico. Non solo, anche la stabilità di queste pinete è a rischio, a causa del loro invecchiamento, delle tempeste di vento e degli incendi rinforzati dal riscaldamento globale, e dell’arrivo previsto entro pochi anni di un secondo parassita ancora più pericoloso, la “cocciniglia tartaruga”, di cui racconteremo meglio in occasione del finale del Giro, tra i pini di Roma.
Passaggio in Liguria, la regione più boscosa d’Italia
La Tappa successiva (Camaiore-Tortona) compirà un breve passaggio in Liguria, la regione più boscosa d’Italia. Sì, avete capito bene: anche se la associamo quasi esclusivamente al mare e alle spiagge, la Liguria è coperta per il 73 per cento da boschi, posti sulle ripide montagne dell’entroterra e ben visibili mentre si fa un bagno.
La carovana del Giro salirà il Passo del Bracco, luogo di antichi e importanti possedimenti monastici agricoli e forestali fin dai tempi di Carlo Magno, che nel 774 d.C. donò il territorio ed il porto di Moneglia ai monaci dell’abbazia di San Colombano di Bobbio, in provincia di Piacenza. Qui la carovana rosa lambirà Chiavari, paese noto per la produzione artigianale di sedie conosciute e apprezzate in tutto il mondo, le leggerissime “Chiavarine”, un tempo realizzate il legno di ciliegio locale, oggi quasi esclusivamente in faggio. Questo legno è proveniente anche dai boschi del vicino Parco dell’Aveto, che da alcuni anni, valorizzando la gestione delle belle faggete poste all’interno delle Foreste Demaniali di cui è titolare, ha promosso questa piccola ma interessante filiera.
Dopo aver attraversato il torrente Scrivia i corridori svalicheranno in Piemonte nei pressi di un Gran Premio della Montagna dal toponimo inequivocabile, “Passo della Castagnola”: inutile dire quale sia lassù la specie storicamente più presente e utilizzata dalle popolazioni locali! Poco prima di questo passo la carovana incrocerà un lungo e magnifico sentiero, l’Alta Via dei Monti Liguri, che si snoda per 440 km lungo lo spartiacque appenninico fino all’inizio delle Alpi. A questo punto, tra i castagni e l’Alta Via, una curiosità forestale è d’obbligo: alcuni dei cartelli che indicano mete e tempi di percorrenza posti lungo il percorso, ma anche tavoli, panche e bacheche informative, sono stati realizzati in legno di castagno locale, lavorato da piccole falegnamerie del territorio: un altro esempio di “microfiliera” che ha portato la gestione forestale sostenibile all’interno di un grande progetto di turismo lento e responsabile. Un piccolo grande esempio della multifunzionalità delle nostre foreste, che possono essere al tempo stesso protagoniste della funzione turistico-ricreativa e sostenere l’economia locale, attraverso la valorizzazione di una materia prima rinnovabile come il legno.
Questa tappa sarà particolarmente importante dal punto di vista storico-sportivo: l’arrivo a Tortona è stato pensato per festeggiare il Campionissimo, l’immenso Fausto Coppi, nel settantesimo anniversario della sua quinta e ultima vittoria del Giro d’Italia, nel 1953. Quell’anno la tappa decisiva fu la Bolzano-Bormio, dove Coppi riuscì a staccare il rivale Koblet lungo la mitica salita del Passo dello Stelvio. Durante quell’ascesa durissima tra i ghiacci e poi lungo i tornanti, in discesa, verso Bormio, tra boschi di larice e abete rosso, andò in scena quello che venne poi definito “l’ultimo volo dell’airone”, l’ultimo grande regalo sportivo di un campione straordinario.
Negli scorsi mesi è stato annunciato che nel paese natale di Fausto Coppi, Castellania (oggi chiamato “Castellania Coppi”, per celebrare in modo indelebile proprio campione) verrà piantato un viale di alberi chiamato “Viale degli eroi”. Qui, il primo albero messo a dimora sarà dedicato a Gino Bartali, l’eterno rivale ma al tempo stesso l’amico il cui nome è indissolubilmente legato a quello di Fausto, il Campionissimo.
Una tappa “regale”, tra nobili prodotti forestali e il Parco dei Re
Il passaggio del Giro attraverso le Langhe, in particolare nel territorio di Alba, durante la Tappa 12 (Bra-Rivoli), non può che spingerci a parlare del più famoso e pregiato dei “prodotti forestali non legnosi”: il tartufo, in particolare del tartufo bianco. Attorno a questa prelibatezza da secoli si intrecciano storie, miti e leggende. Pensate che i naturalisti del passato credevano che i tartufi fossero una pianta, oppure un’escrescenza del terreno o addirittura un animale! Ma i tartufi, in realtà, non sono altro che corpi fruttiferi di funghi appartenenti al genere Tuber, che compiono l’intero ciclo vitale sotto terra, in simbiosi con piante arboree. C’è un interessante aneddoto forestale collegato al tartufo: greci e romani pensavano che il prezioso fungo nascesse dall’azione combinata dell’acqua, del calore e addirittura dei fulmini. Da questa convinzione nacque una leggenda sull’origine del prezioso fungo, descritto come il frutto di un fulmine scagliato da Giove in prossimità di un albero ritenuto a lui sacro: una quercia. In effetti, i tartufi bianchi sulle Langhe si trovano spesso in boschi di querce: roverelle, roveri e farnie, ma non solo. Anche i pioppi, i salici, i tigli e i noccioli sono piante che sviluppano simbiosi con il prezioso Tuber magnatum.
Nel ‘700 il tartufo piemontese era considerato presso tutte le corti europee un alimento tra i più pregiati ma solo agli inizi del ‘900 il tartufo d’Alba ha acquistato fama mondiale, grazie all’opera di promozione internazionale di un famoso ristoratore di Alba, Giacomo Morra.
Siamo convinti che nel dopo tappa qualche ciclista buongustaio si concederà una bella grattugiata di tartufo bianco, magari su un uovo al tegamino: ecco forse a cosa serviva quell’uovo, diventato un tormentone social delle prime tappe, che girava, di tasca in tasca, da un corridore all’altro!
Intorno al chilometro 108, invece, tra campi coltivati e i primi palazzi della periferia di Torino, la carovana sfiorerà a grande velocità una macchia verde molto particolare: un bosco in mezzo al nulla, uno degli ultimi residui della grande foresta di pianura che duemila anni fa occupava tutta la pianura padana, al punto che, per parafrasare Italo Calvino, una scimmia, saltando da un albero all’altro, sarebbe potuta arrivare da Torino a Venezia senza mai toccare terra. Quella macchia è il Parco naturale di Stupinigi, i cui boschi di farnia e carpino sono sopravvissuti a bonifiche e trasformazioni agricole perché scelti fin dal 1500 come area di caccia per i reali di Savoia, che qui costruirono, duecento anni dopo, una delle residenze barocche più sontuose d’Europa, dedicata appunto alla caccia e al relax nella campagna.
Questo grande polmone verde alle porte di Torino oggi è un’area protetta regionale ed europea, ma prima dell’istituzione del Parco i prelievi di legno indiscriminati hanno in parte degradato le condizioni del bosco e lasciato ampio spazio all’ingresso di alberi invasivi come la robinia, l’ailanto, la quercia rossa, il “terribile” ciliegio tardivo e altre 140 specie “sinantropiche”, legate cioè più all’ambiente urbano che a quello del bosco, che oggi minacciano la biodiversità locale. Già nel 1991 il botanico torinese Gian Paolo Mondino segnalava come le operazioni forestali poco o per nulla pianificate, i drenaggi di acque sotterranee e la diffusa sostituzione del bosco naturale con i pioppeti abbiano determinato la scomparsa di almeno 30 specie della flora locale.
Se si aggiunge il deperimento che da alcuni anni colpisce la querce di pianura, colpite dalla siccità e dai parassiti, si ottiene una situazione in rapido deterioramento, che i forestali del Parco sono impegnati a contrastare con nuovi rimboschimenti, diradamenti per lasciare spazio agli alberi più pregiati, potature attente per assicurare la sicurezza dei visitatori e tagli in aree selezionate per favorire la rigenerazione spontanea di semi e piante meglio adattate al nuovo clima.
Tra i boschi di protezione della Valle d’Aosta
La tappa 13, da Borgofranco d’Ivrea a Crans Montana, sarà il primo “tappone alpino” di questa edizione del Giro.
Purtroppo però, a causa del rischio valanghe, la “Cima Coppi” (il punto più alto dell’intera corsa rosa) è stata annullata e spostata ad una tappa di successiva. Un vero peccato, perché si sarebbe trattato di un viaggio nel viaggio, un’ascesa di 34 chilometri dal fondovalle di Aosta, con i suoi boschi spesso assetati e sempre più ricchi di specie mediterranee, e la cima del Colle del Gran San Bernardo, ben al di sopra del limite permanente che gli alberi non possono superare, dove la temperatura media estiva non sale mai oltre i dieci gradi.
Non conosciamo nel dettaglio il nuovo percorso, ma probabilmente a metà salita, poco prima della deviazione che la carovana rosa sarà costretta a fare, i corridori attraverseranno il comune di Saint-Rhémy-En-Bosses. Trecento abitanti che vivono nel cuore della “Coumba Freida”, la valle fredda, come è chiamata questa parte di Valle d’Aosta a causa del suo clima invernale caratterizzato da freddo e neve. Vivere qui richiede resistere non solo al gelo, ma anche alle valanghe, come dimostra la scelta obbligata degli organizzatori del Giro.
E a volte, la migliore protezione è un bosco che faccia da “ombrello verde”, impedendo l’accumulo della neve sul versante più ripido della montagna. Nella foresta “De la Sauvegarde”, che sovrasta il paese e la strada d’accesso al colle del Gran San Bernardo, nell’anno 1573 il Conseil des Commis di Aosta proibì il taglio e l’asportazione di legname, che avrebbe rischiato di facilitare lo scivolamento della neve. Tali indicazioni furono riaffermate numerose volte, con specifici editti, nel corso dei secoli seguenti, anche perché frequentemente le prescrizioni erano disattese, benché le valanghe minacciassero costantemente il borgo. Nel 1731 si provvide alla nomina di due guardie “forestiers et accusateurs des delinquentes”, con l’incarico di custodire, conservare e proteggere i boschi banditi della comunità. Ma il 18 febbraio 1841, una valanga abbattè la parte centrale del “Bois de la Sauvegarde” e giunse a poca distanza dalle case. Nello stesso anno, il Re Carlo Alberto in persona finanziò la costruzione di due giganteschi muri deviatori in pietra, ancora ben visibili nel cuore del bosco.
Centottanta anni dopo quegli eventi, le foreste di Saint-Rhémy sono state nuovamente al centro dell’attenzione dei forestali regionali, ma questa volta la protezione dalle valanghe è stata ottenuta… tagliando degli alberi. Avete capito bene. Perché il bosco lasciato a sé stesso sta benissimo, ma con il passare del tempo le dinamiche naturali possono attraversare fasi che aumentano temporaneamente il pericolo, come quelle legate all’invecchiamento e al crollo degli alberi più vecchi, unite poi alla lunga attesa necessaria per la crescita di nuove piantine. Per questo, la gestione delle”foreste di protezione diretta”, attività specializzata in cui la Valle d’Aosta è leader, prevede il taglio mirato di alcuni alberi in modo da accelerare l’espansione della chioma di quelli che rimangono nel bosco, liberi dalla concorrenza dei loro vicini, e la crescita di quelle più piccole, che riempiono i vuoti più velocemente grazie all’ingresso della luce nel sottobosco. In questo modo il bosco viene accompagnato nel suo sviluppo, mantenendo sempre le caratteristiche che lo rendono il miglior “muro” esistente contro il distacco delle valanghe.
E proprio come valanghe si lanceranno i corridori giù dal Gran San Bernardo per poi risalire oltre confine, in Svizzera, alla Croix de Coeur e infine all’arrivo in salita di Crans Montana, nel Vallese. Una tappa davvero tosta, che farà grande selezione.
Tra pini silvestri non proprio “in forma”
Nei primi 50 chilometri della Tappa 14, da Sierre, in Svizzera, a Cassano Magnago, in provincia di Varese, si scalerà il Passo del Sempione, attraversando in poco spazio tre aree linguistiche (francese, tedesco, italiano) che, fatto insolito, chiamano l’albero protagonista di tappa in tre modi completamente diversi: chêne, eiche, quercia. Non parliamo però della maestosa farnia di pianura, che ci accoglierà nel Parco del Ticino poco prima dell’arrivo di tappa, bensì della più montana roverella, amante del caldo e delle rupi. Una specie mediterranea, così ben adattata alla siccità estiva da essere in grado di chiudere gli stomi – i “boccaporti” delle foglie attraverso cui passano ossigeno, anidride carbonica e vapore acqueo – per non farsi sfuggire neppure una goccia d’acqua quando occorre risparmiarla il più possibile. E nel Vallese svizzero, annidato nel cuore delle Alpi, dove il clima è freddo in inverno ma caldo e arido in estate, la roverella si trova molto bene. Anzi, sempre meglio, con il prolungarsi delle siccità spinte dalla crisi climatica, tanto da stare soppiantando il re incontrastato di queste valli di montagna: il pino silvestre.
Da almeno un decennio i monitoraggi condotti dall’Istituto svizzero per il bosco, la neve e il paesaggio, che in tutta l’area elvetica tiene sotto controllo una serie di foreste da oltre cento anni (in Italia il primo Inventario forestale nazionale è molto più recente, del 1985), raccontano l’espansione della roverella all’interno delle pinete. Una vera e propria colonizzazione verso l’alto che segue lo spostamento in quota delle fasce climatiche e che accompagna un altrettanto veloce deperimento del pino silvestre che, originario della Siberia, non è in grado di tollerare la mancanza d’acqua, soprattutto in primavera ed estate.
Una débacle, quella del pino, che può essere tanto graduale quanto improvvisa. Un lento ridursi della capacità fotosintetica e della crescita fino a fermarsi e morire dopo molti decenni, o un repentino peggioramento della salute causato dalla rottura delle “vene” che, invece di linfa, si trovano a inglobare solo aria in tempi di siccità, oppure scatenato dall’attacco di parassiti animali e vegetali (come il vischio) che approfittano di questo stato di debolezza. Per non parlare del fuoco che può consumare in poche ore centinaia di ettari di bosco, e dopo il quale il pino fa troppa fatica a ritornare, data la troppo breve distanza a cui i suoi semi riescono a spingersi.
Una storia di “sostituzione arborea” che ci racconta un messaggio molto più ampio: le foreste sono in costante cambiamento. Esse sono indubbiamente in grado di reagire al riscaldamento globale, ma quando il cambiamento avviene in modo troppo rapido, i tempi di reazione di foreste poco adattate “non tengono il passo”, come si dice in gergo ciclistico. Finché si tratta di un altro albero, il bosco continua a darci i suoi benefici. Ma quando la sostituzione lascia solo erbe e arbusti, come inizia a vedersi in quasi il 15 per cento delle foreste mondiali colpite dalla siccità, il cambiamento si ripercuote anche su tutti coloro che dal bosco dipendono, per ricavare prodotti, ottenere protezione, o per semplice affetto.
Un affetto che dura nel tempo, come quello che gli abitanti di Mergozzo, al km 123 di questa tappa, riservano all’olmo nella piazza centrale del paese. Anticamente sotto di esso le autorità locali si riunivano per le decisioni riguardanti la comunità e per amministrare la giustizia. Attualmente l’albero, che ha circa 500 anni, è completamente cavo e sostenuto da “stampelle” di metallo, ma ancora vivo e annoverato tra gli “alberi monumentali” d’Italia. Chissà se proprio come i pini silvestri, in modo lento, tappa dopo tappa, o magari improvviso, su una delle tante salite, qualche favorito avrà una débacle in questa seconda settimana. Il Giro è sempre imprevedibile e questo è parte del suo fascino… ciò che invece è previsto e prevedibile è il clima del futuro, se non acceleriamo l’uscita dai combustibili fossili.
Verso Bergamo, tra parchi cittadini e vivai
Quali boschi raccontare tra Seregno e Bergamo, durante la Tappa conclusiva della seconda settimana? La Brianza è certamente famosa per i suoi mobilifici, dove il legno è protagonista, ma non certo per le sue foreste: i mobili del distretto vengono infatti realizzati in grande maggioranza con legno importato dall’estero. È una dinamica comune del nostro Paese, che nonostante abbia molte foreste dipende per circa l’80 per cento dei suoi bisogni da legname acquistato oltre confine, anche da molto, molto lontano, con inevitabili problematiche di sostenibilità. Questo deve farci riflettere, rendendoci consapevoli di un paradosso che può essere colmato solamente con grandi investimenti in buona selvicoltura e in piantagioni da legno, per produrre in futuro, in modo sostenibile, legname nazionale per usi durevoli capace anche di stoccare CO2 per lunghi periodi.
Ma tranquilli, anche in questa Tappa si incroceranno alberi e boschi, anche “boschi urbani”, come quello annidato a pochi chilometri dalla partenza, tra centri commerciali e fabbrichette. Si tratta di uno dei parchi storici più importanti d’Italia: il Parco di Monza, uno dei più grandi parchi cintati d’Europa, istituito nel 1805 per volontà di Napoleone con lo scopo di farne una tenuta agricola modello e una riserva di caccia. Nel tempo questo parco è diventato il luogo ideale per attività sportive, di svago e di relax, oltre che sede dell’autodromo sede del Gran premio d’Italia di Formula 1.
Per questo Parco l’architetto imperiale Luigi Canonica concepì un progetto dall’estetica visionaria, armonizzando le architetture presenti con il parco stesso, in un sistema dalla bellezza e regalità quasi teatrali. Il progetto proseguì poi in epoca asburgica, quando il Parco fu aperto al pubblico con l’intento di offrire democraticamente ai cittadini di Monza e Milano la possibilità di respirare un’aria più salubre nonché momenti piacevoli di svago: concetti oggi comuni a tutti, ma allora decisamente innovativi.
Nel corso del ‘900 la parte forestale del Parco, fatta di querce e platani piantati ad arte lungo viali prospettici e di una parte di querceto di pianura ancora intatto, ha subìto un lungo degrado, anche a causa della costruzione e dell’allargamento dei diversi impianti sportivi all’interno dell’area (autodromo compreso). I viali, i rondò, le prospettive e i boschi lungo le vie d’acqua furono dimenticati, eliminati, o invasi dalle specie esotiche. Negli anni ‘90 però è stato lanciato un “Piano per la Rinascita del Parco di Monza” e con i fondi del PNRR messi recentemente a disposizione è stato dato l’avvio ad un nuovo ripristino del Parco.
Una parte importante del patrimonio arboreo è stata o sarà presto restaurata, anche grazie alle piantine forestali prodotte dal vivaio regionale di Curno, piccola cittadina alle porte di Bergamo che la carovana rosa incontrerà intorno al km 150 della tappa. Il Vivaio Forestale Regionale di ERSAF si occupa della produzione di piante forestali di provenienza locale. Ogni anno, il personale regionale raccoglie i semi di 80 specie autoctone arboree e arbustive da boschi certificati per questo scopo, i cosiddetti “Boschi da seme” sparsi per la Lombardia come nelle altre regioni italiane. In questo vivaio i semi vengono conservati, fatti germogliare e le 450.000 piantine prodotte ogni anno sono vendute o anche regalate. Scuole, enti locali e associazioni no profit possono infatti richiedere a titolo gratuito fino a 50 piantine forestali all’anno compilando un semplice modulo. Un modo per contribuire in piccolo alla cura e alla gestione di foreste, in particolare quelle poste nelle vicinanze dei grandi centri urbani, che ancora oggi possono fare molto bene a tutti noi, ricordandosi sempre però che piantare alberi e soprattutto farli vivere a lungo non è affatto semplice.
D’altronde, anche nei “vivai del ciclismo”, quelli che formano i grandi campioni, e poi nelle grandi squadre, le figure tecniche specializzate come allenatori, massaggiatori, medici, esperti di nutrizione, direttori sportivi, addirittura psicologi e motivatori sono sempre più importanti per arrivare a grandi prestazioni atletiche. Nelle foreste funziona uguale, meglio non improvvisare! Il nostro consiglio è quindi, sempre, di consultare gli esperti, come i dottori agronomi e forestali, che sapranno guidarvi al meglio.
Per questa seconda settimana di Giro Forestale d’Italia è tutto, ma continuate a seguirci, perché la terza e ultima settimana sarà non solo la più combattuta tra i big a caccia della vittoria finale, ma anche la più forestale di tutte: vi racconteremo tante altre storie, aneddoti e curiosità legate al nostro patrimonio forestale, alla sua bellezza, ai rischi e all’importanza di una sua corretta gestione.
Giorgio Vacchiano è ricercatore forestale e fa parte della Sisef, la Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale.
Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale e fa parte della Compagnia delle foreste.
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