Continua l’operazione “antiterrorismo” lanciata dall’esercito d’Israele sulle città e i campi profughi palestinesi.
La cooperante Giuditta Brattini da Gaza: un blackout contro i civili, fermiamo la catastrofe
L’appello da Gaza della cooperante Giuditta Brattini: “La situazione è al collasso negli ospedali e nei centri, serve una tregua e aiuti veri”.
- Giuditta Brattini, cooperante di Gazzella Onlus, è una dei 14 italiani ancora nella Striscia di Gaza: attualmente si trova in un centro Unrwa non lontano da Rafah.
- In un messaggio subito dopo il blackout del weekend, racconta: “Quelle 30 ore di silenzio sono state volute per poter proseguire con le le violazioni contro i civili”.
- Secondo la cooperante italiana i centri delle Nazioni Unite e gli ospedali sono al collasso, si rischiano epidemie e ancora tante vite umane: “Parliamo di quello che succede e fermiamo questa catastrofe o saremo tutti responsabili”.
Ultimo aggiornamento del 2 novembre – Giuditta Brattini è una dei primi quattro italiani usciti dalla Striscia di Gaza, attraverso il valico di Rafah, nella giornata del 1 novembre. In seguito a un accordo tra le parti, favorito dalla mediazione del Qatar, circa 450 stranieri o palestinesi con doppio passaporto, oltre a 81 feriti gravi, sono stati autorizzati a lasciare la Striscia. Insieme a Giuditta Brattini, cooperante di Gazzellla Onlus, sono usciti anche Laura Canali di Human Rights Watch, Maya Papotti di Azione contro la fame e Jacopo Intini di Cooperazione internazionale Sud Sud con la moglie palestinese Amal Khayal.
Dalla sera dello scorso venerdì, 27 ottobre, Israele ha intensificato gli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, dando vita anche ai primi attacchi via terra. A partire da quella stessa sera, e per oltre 30 ore, Gaza è rimasta completamente priva di comunicazioni: le linee internet sono state interrotte, i segnali radio e telefonici lo stesso. Cosa stesse esattamente succedendo in quelle ore, fino a domenica mattina, nessuno ha potuto saperlo con esattezza, tranne chi era lì di persona.
Giuditta Brattini è una di loro. Cooperante dell’associazione Gazzella Onlus, che da molti anni lavora nella Striscia, è una dei 14 italiani ancora bloccati a Gaza a dall’inizio dell’assedio dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre. “Già dal pomeriggio del 27 ci siamo trovati senza connessioni, le Sim locali di Jawwal e degli altri gestori palestinesi non funzionavano più. Israele ha fatto in modo che non ci fossero più informazioni su quanto stava avvenendo”, spiega in un lungo messaggio inviato domenica, subito dopo il ripristino parziale delle linee (a quanto sembra, imposto a Israele dagli Stati Uniti) per tranquillizzare sulle proprie condizioni ma soprattutto per testimoniare quanto accaduto. “Ovviamente la giustificazione dell’interruzione è stata il voler tagliar i contatti tra i miliziani di Hamas, che così non avrebbero potuto fare resistenza. Ma sappiamo bene che Israele in questo momento sta impedendo di fare uscire qualsiasi comunicazione, lo dimostra anche il fatto che i giornalisti non possono entrare a Gaza”.
Chi è Giuditta Brattini, la cooperante a Gaza
Giuditta Brattini, veronese, nel video qui sotto in una testimonianza precedente a questa, oggi si trova vicina a Rafah, ospite di un centro profughi improvvisato dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi che nei primi 20 giorni di assedio ha perso già 59 membri del suo staff, praticamente tutti palestinesi: nei giorni scorsi aveva raccontato di come fosse stata tra le persone costrette a evacuare da Gaza City, e delle speranze vanificate di poter lasciare Gaza attraverso il valico. La sua è delle poche testimonianze ‘straniere’ disponibili in questi giorni dalla zona entrata ormai nella quarta settimana di assedio, sebbene la sua visione possa essere resa parziale dal fatto che tuttora all’interno della Striscia è difficile comunicare. “Non tutte le linee sono state ripristinate, ma almeno siamo nelle condizioni di poter comunicare con buona parte delle delle persone”.
Ma il punto vero è che ovviamente “nel corso di di queste 30 ore e più di non connessione sono stati commessi altri crimini contro la popolazione civile, con bombardamenti continui sia a nord che a sud della Striscia di Gaza. Durante il blackout e nel corso dei bombardamenti, le famiglie palestinesi del campo Unrwa mi hanno detto che non hanno potuto neanche collegarsi con i centri di soccorso e con gli ospedali per avvisare che c’erano feriti”. Tradotto: impossibile anche la banale operazione di chiamare un’ambulanza: “La gente ha dovuto caricarsi in spalla o in macchina i feriti e le persone, e cercare comunque di prestare loro stessi il primo soccorso”.
Tagliati fuori da tutto
Dietro al taglio delle comunicazioni, dunque, secondo l’attivista di Gazzelle Onlus si cela l’ennesima violazione del diritto internazionale circa il soccorso ai feriti: in effetti la Convenzione di Ginevra stabilisce che le parti in conflitto devono prendere tutte le misure necessarie per garantire il soccorso ai feriti e ai malati, senza alcuna discriminazione. D’altronde secondo Brattini “le violazioni qui nella Striscia di Gaza oramai sono innumerevoli, dal ripetuto utilizzo di armi non convenzionali come il foforo bianco che oramai sono è stato documentato e testimoniato anche da Amnesty International, agli obiettivi civili, gli ospedali, le chiese” .
Brattini descrive un quadro drammatico, che sembra confermare quanto arriva dalle fonti palestinesi come la Mezzaluna Rossa, il ministero della Sanità di Gaza, anche se la scorsa settimana il presidente statunitense Joe Biden aveva messo in dubbio la veridicità dei numeri delle vittime fornite dal ministero della Salute di Gaza, nel frattempo salite a oltre ottomila. “I bombardamenti sono stati continui in queste ore, anche qui intorno a dove a dove siamo noi, e ci sono ancora civili a Jabalia, Beit Lahia e Gaza City” nel nord del Paese “che non hanno voluto evacuare le loro case. Non sappiamo ancora in che condizioni sono perché lì le comunicazioni sono ancora interrotte ed erano già difficili in precedenza…”.
Anche i centri dell’Unrwa sono allo stremo
Anche nei centri di raccolta dell’Unrwa, racconta Giuditta Brattini nel suo messaggio, “le condizioni sono invivibili”, ci sono molti casi di infezioni polmonari intestinali, della pelle. Il tutto in totale assenza “dei farmaci sufficienti alle necessità. Ma soprattutto scarseggia cibo e acqua e questo sta diventando un grande problema, anche per i centri delle Nazioni Unite”. Centri che sono pieni, sold out, mentre fuori “tante famiglie urlano e spingono per poter entrare ed essere accolti. Ma purtroppo i centri sono oramai completi, ammesso che possiamo parlare in questi termini, perché i centri Unrwa, come la scuola dove siamo noi, non sono centri per la raccolta di popolazione. Non c’è più la possibilità di di poter accogliere altre persone cercando di garantire una quotidianità decente”. La stessa agenzia Onu, l’unica creata ad hoc per una precisa realtà territoriale, nel weekend ha fatto sapere che i suoi magazzini sono stati saccheggiati dalla popolazione disperata per la mancanza di cibo.
Dalla scorsa settimana sono entrati a Gaza circa 80 camion di aiuti, ma quello che Giuditta Brattini testimonia da dentro è che “l’elettricità continua a mancare e gli ospedali oramai stanno operando in condizioni disperate, mentre i feriti continuano arrivare a centinaia”. E nel nord della Strisca di Gaza “ci hanno comunicato che Israele ha chiesto l’evacuazione degli ospedali ancora funzionanti” compreso quello più grande di Gaza City, Al Shifa (che secondo Israele nasconderebbe nei suoi sotterranei un quartier generale di Hamas), e quello di Al Quds, dove ci sono 400 feriti e migliaia d rifugiati: l’Organizzazione mondiale della Sanità ha ribadito in queste ore, come già fatto nelle settimane precedenti, che evacuare un ospedale è una operazione impossibile per via della quantità di persone la cui vita è appesa a un farmaco, a un trattamento specifico, a un macchinario alimentato da energia elettrica.
Una sconfitta di tutti
Il tutto, è lo sfogo di Giuditta Brattini, “nel silenzio assordante della comunità internazionale, e senza nessuna azione diretta contro i crimini che Israele sta commettendo in totale impunità”. Insomma, la percezione che arriva dall’interno è che l’Occidente faccia fatica a riconoscere fino in fondo quello che sta accadendo nella Striscia: non tanto tra i cittadini, che sono scesi in piazza anche in questo weekend in molte città, anche a Parigi nonostante il divieto imposto dalle autorità, quanto appunto tra i governi nazionali e sulla stampa.
“Bisogna che ci fermiamo e cerchiamo di capire cosa sta dicendo l’informazione: perché si sposta tutta, da quello che riusciamo a capire da qui, a favore di Israele?. In questi giorni tutta la politica che viene fatta è tesa a cancellare i 75 anni di occupazione. Non si vuol parlare della storia della Palestina”. Per tornare sul campo, invece, “se non si trova non trova una soluzione a breve, che potrebbe essere una tregua e un’entrata vera di aiuti umanitari, di tutto quello che serve, e senza l’attuale divieto di di portare farmaci, acqua e cibo al nord della Striscia di Gaza; se non riusciamo a spingere, a fare pressione su questa situazione, bene: io credo che allora e saremo tutti un po’ corresponsabili di questa catastrofe”.
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