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Giulia Innocenzi, la sua missione contro gli allevamenti intensivi e un documentario-bomba in arrivo
La nostra intervista alla giornalista Giulia Innocenzi dopo la sua ultima inchiesta sugli allevamenti intensivi andata in onda a Report.
- Gli allevamenti intensivi sono un sistema produttivo perpetrato a discapito della salute umana, animale e ambientale.
- Da diversi anni Giulia Innocenzi racconta tutto questo interpretando il suo lavoro come una missione affinché le cose cambino.
- Dopo l’inchiesta tra Cina e Italia andata in onda su Report, la giornalista annuncia un documentario europeo che farà molto parlare.
Giulia Innocenzi, classe ‘84, è una nota giornalista italiana, autrice di libri e inchieste televisive. Negli ultimi anni ha concentrato i suoi sforzi professionali nel documentare i problemi e gli scandali degli allevamenti intensivi. La sua ultima inchiesta è andata in onda su Report il 5 novembre scorso e sul canale Instagram della trasmissione di Rai3 ha superato il milione e mezzo di visualizzazioni (1,7).
Un viaggio tra Cina e Italia che, tra imprevisti, colpi di fortuna e coperture, è riuscito a mostrare i maxi allevamenti grattacielo di maiali sorti nella Repubblica popolare cinese dopo l’epidemia di peste suina africana e a raccontare – con l’aiuto delle immagini dell’associazione animalista Last Chance for Animals – gli allevamenti della Lombardia alle prese con lo stesso virus, tra abbattimenti per nulla etici e sicuri degli animali e finanziamenti pubblici che continuano ad alimentare questo sistema insostenibile dal punto di vista ambientale, del benessere animale e della salute umana.
L’abbiamo contattata per saperne di più sull’inchiesta, ma anche sul suo impegno riguardo a questi temi. Ecco l’intervista.
Hai deciso di partire per la Cina la scorsa primavera, dopo aver letto la notizia di un grattacielo di 26 piani adibito ad allevamento di maiali. Una volta sul posto cos’hai scoperto rispetto alle informazioni che erano circolate?
L’aspetto che mi ha più sconvolto sono le condizioni dei lavoratori che vivono con le loro famiglie in una sorta di città all’interno degli allevamenti per evitare la circolazione dei virus e il rischio di contagi: solo i figli possono uscire per andare a scuola, mentre loro hanno solamente quattro giorni di libera uscita al mese e ogni volta che rientrano devono sottoporsi a quarantena e tampone, fare tre docce e lavare i vestiti a 70 gradi. Ci hanno raccontato di piscine e palestre, ma quello che abbiamo visto sono in realtà case fatiscenti. I lavoratori accettano questo compromesso perché gli stipendi sono un po’ più alti della media e perché si tratta di zone sperdute.
Quello che abbiamo capito, poi, è che di questi maxi allevamenti grattacielo ne stanno costruendo davvero tanti in tutta la Cina, ma la cosa più inquietante che abbiamo scoperto è che delegazioni europee dall’Olanda e dalla Spagna sono andate a visitare questi allevamenti. E non l’hanno fatto certo per motivi turistici.
Davanti a certe scene o vivendo certe situazioni che urtano la tua sensibilità, rimani sempre impassibile e professionale. In realtà cosa provi?
L’obiettivo in questi casi è quello far parlare il più possibile il mio interlocutore, quindi cerco di assecondarlo il più possibile. E faccio di tutto pur di far funzionare la copertura. Pensa che dopo la visita al maxi allevamento a 100 chilometri da Wuhan, dove siamo riusciti a entrare perché mi sono finta la figlia di un allevatore italiano che voleva esportare questo sistema, il direttore ci ha invitato a pranzo e lì, pur non consumando carne da dieci anni, ho dovuto mandare giù un boccone con il maiale allevato e mi hanno pure costretto a fare il bis!
Nell’inchiesta hai fatto un parallelo tra la Cina e l’Italia che sono accomunate da certe situazioni, mentre su altri aspetti viaggiano a velocità diverse. In risposta ai problemi generati dell’allevamento intensivo e del consumo di carne, quali sono le soluzioni globali?
Il link evidente tra Cina e Italia è che la Cina ha deciso di puntare su questi maxi allevamenti grattacielo dopo che la pesta suina africana nel 2018 ha ucciso 200 milioni di maiali nel Paese e che ora l’Italia è alle prese con la stessa malattia virale tra i maiali.
Quello che stiamo facendo noi contro la peste suina, oltre ad abbattere più di 40mila maiali, è rimborsare in tutto e per tutto gli allevatori, senza fare nessuna riflessione sul fatto che gli allevamenti intensivi sono un rischio per la salute umana. Non è il caso della peste suina africana, ma per quanto riguarda l’influenza aviaria, per esempio, il virus ha già fatto il salto di specie dai polli all’uomo e mancano pochi passaggi perché si riesca a trasmettere da uomo a uomo.
Mentre gli scienziati ci dicono che gli allevamenti intensivi sono bombe a orologeria per quanto riguarda future pandemie, noi continuiamo ad andare in direzione opposta – e opposta anche a quella che dovrebbe essere l’eccellenza del made in Italy – e ad aprire nuove produzioni di questo tipo. Questo per me è sconvolgente.
La seconda riflessione è che attualmente i cinesi mangiano meno carne di noi, ma i consumi stanno aumentando perché vogliono imitare la dieta occidentale. Questo è un problema per tutti noi e per il Pianeta, ma non possiamo chiedere ai cinesi di diminuire il consumo di carne se non lo facciamo prima noi perché siamo quelli che ne stanno mangiando di più e che hanno consumato carne fino ad ora. Dovremmo quindi cercare di dare il buon esempio al resto del mondo per cambiare le cose.
Lanciando la tua inchiesta sui social, nel post hai scritto: “Per il maiale, che stia al 26esimo piano o al piano terra, non cambia niente: trascorrerà la sua misera vita rinchiuso in un recinto o in gabbia, e poi andrà al macello… Continuare a sfruttare gli animali come fossero oggetti inanimati al nostro servizio ci tornerà indietro, che sia con la prossima pandemia o con il cambiamento climatico”. Quale delle due cose ti preoccupa di più?
Il cambiamento climatico. Lo stiamo vedendo, è sotto gli occhi di tutti, qualunque evento atmosferico ci sta creando dei problemi ed è solo l’inizio. Eppure continuiamo a inquinare sempre di più e io non capisco come facciamo a essere così ottusi, così dissociati dalle conseguenze delle nostre azioni.
Anche per questo per me è importante mostrare anche le immagini più crude, a costo che qualche spettatore cambi canale. Mi sono confrontata su questo con Sigfrido Ranucci (giornalista e conduttore di Report, ndr) e lui mi ha risposto che questo è il nostro lavoro e che come giornalisti del servizio pubblico abbiamo il dovere di mostrare tutto.
La cosa assurda è che dopo queste immagini il Consiglio regionale della Lombardia, in tema di peste suina africana, non ha discusso dei maltrattamenti a cui sono stati sottoposti gli animali durante gli abbattimenti, né delle procedure di biosicurezza non rispettate, ma si è parlato di come dare il prima possibile i ristori agli allevatori. Per me è allucinante: siamo ciechi davanti al problema, non lo vogliamo vedere, ma questa cosa ci tornerà indietro presentandoci un conto salatissimo.
È da diversi anni ormai che ti occupi di questi temi, si può dire che è diventata la tua missione?
Sì, per me è una missione. Ho la fortuna di poter parlare di queste cose a tantissime persone attraverso un mezzo potente come la televisione. Sento questa responsabilità e la voglio usare al meglio. Ho scelto di raccontare questi temi perché sono tra i meno affrontati in assoluto e, invece, hanno bisogno di essere conosciuti dai cittadini, dalle istituzioni e dagli allevatori stessi: alcuni di loro mi ringraziano perché vogliono cambiare questo sistema in cui non si riconoscono ma a cui hanno dovuto adeguarsi per non restare fuori dal mercato.
In tanti anni che segui queste tematiche, qualcosa è migliorato?
Le persone sono certamente più consapevoli rispetto a dieci anni fa; il problema è che a questa consapevolezza dei cittadini non corrispondono le azioni della politica che vanno avanti ad assecondare le lobby degli allevatori, dei produttori di carne e delle grandi marche che sono molto potenti in tutta Europa.
L’Unione europea avrebbe dovuto adottare delle leggi più stringenti per il benessere animale, per esempio eliminando le gabbie negli allevamenti di scrofe che non permettono agli animali di girarsi dalla parte opposta, ma solo di alzarsi e abbassarsi, rischiando anche di ferirsi; invece, la Commissione ha ritirato il pacchetto di riforme per insistenza delle lobby. Ormai se ne riparlerà nella prossima Commissione dopo le elezioni europee e questo è scandaloso. Continuiamo a raccontarci che l’Europa è il primo continente per il rispetto del benessere degli animali, ma non lo stiamo dimostrando.
Quali strumenti abbiamo, oltre a quelli comunicativi, per generare consapevolezza e cambiare le cose?
Sarebbe utile un’etichetta che racconta se la carne che si sta comprando proviene da un allevamento intensivo o estensivo. Si pensa che in questo modo le persone potrebbero comprare meno carne e più di qualità visto che l’ultima indagine Eurispes dice che il 75 per cento degli italiani è contrario agli allevamenti intensivi.
Il consumatore oggi, però, non ha questo diritto perché qualsiasi proposta fatta sul tema – come il pacchetto di riforme che abbiamo presentato alla Camera dei Deputati qualche anno fa – viene bocciata perché oltre il 90 per cento dei prodotti presenti nel supermercato proviene da produzioni intensive.
Cosa pensi della carne coltivata?
Sono stata a Singapore e ho assaggiato la carne coltivata di pollo: l’ho trovata buona, molto simile alla carne proveniente da allevamento. Penso sia una delle soluzioni sul piatto per ridurre i problemi degli allevamenti intensivi: non si uccidono animali, non abbiamo lo stesso inquinamento, non rischiamo diffusioni di virus. Dunque perché vietarla quando ancora non esiste una produzione industriale e non è ancora autorizzata nell’Unione europea?
Su questo il governo italiano, con il disegno di legge sul cibo sintetico, ha fatto una battaglia ideologica a favore delle lobby degli allevatori: a livello elettorale sicuramente ha raggiunto i suoi obiettivi, ma per quanto riguarda la risoluzione di problemi ha fallito. In ogni caso, se la legge venisse approvata, l’Unione europea la boccerebbe perché non si può impedire la commercializzazione di prodotti qualora vengano autorizzati nella Ue.
A che progetti stai lavorando ora?
Da cinque anni sto portando avanti la realizzazione di un documentario europeo su questi temi: è un progetto a cui tengo tantissimo perché ci ho messo cuore e anima insieme a tante persone che mi hanno aiutato nell’affrontare tantissimi problemi. Uscirà all’inizio dell’anno prossimo, ma non posso dire di più perché prima dobbiamo risolvere un po’ di questioni legali. Essendo un documentario controverso sto facendo fatica a trovare partner di distribuzione e dovremo rimboccarci le maniche anche su questo, ma sono sicura che riusciremo a farlo vedere a tantissime persone. Non vedo l’ora che esca perché farà un po’ di casino.
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