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Giuliano Volpe. La Convenzione di Faro è uno strumento di pace, non chiede di coprire le statue
L’Italia ratifica la Convenzione di Faro. Cosa cambia? Ne parliamo con Giuliano Volpe, presidente emerito del Consiglio superiore Beni culturali e paesaggistici.
Nel mondo della cultura, la ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia lo scorso 23 settembre è ancora la notizia del momento. Il documento, il cui nome completo è Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, fu approvato nel 2005 a Faro, in Portogallo, ed è stato ratificato finora da 20 Paesi su 47.
Tra i suoi obiettivi principali, ha da un lato quello di rendere maggiormente partecipi i cittadini non solo della fruizione del patrimonio culturale, ma anche della sua tutela e gestione, dall’altro quello di ricordare che i beni culturali sono strumento di dialogo e pace tra le culture e non di contrasto. Ma se i valori della convenzione sono così alti, allora perché la ratifica ha attirato qualche critica? E in sostanza, per noi che siamo fruitori dei beni culturali, che cosa cambia?
Ne abbiamo parlato con Giuliano Volpe, archeologo e presidente emerito del Consiglio superiore Beni culturali e paesaggistici del Mibact.
La Convenzione di Faro è stata ratificata dall’Italia dopo 15 anni. Questo per l’Italia cosa significa?
Significa tornare allo spirito dell’articolo 9 della costituzione, per cui il soggetto è la Repubblica che ha come diritto dovere di tutelare paesaggio e patrimonio storico artistico, promuovere sviluppo della cultura e la ricerca. Sostanzialmente, con la Convenzione si ribadisce che il patrimonio culturale non è proprietà dei professori, degli storici dell’arte, degli archeologi, degli architetti, dei funzionari di un singolo ministero. Noi, certo, svolgiamo una funzione preziosa, ma il patrimonio non è solo nostro. È un insieme di risorse (e non di cose) che le popolazioni individuano come espressione di cultura, tradizioni, sensibilità. È un modo per tornare alle origini, ma in maniera più moderna, con una visione più ampia, inclusiva e partecipata, passando dal diritto del patrimonio culturale, in cui l’Italia ha una grande tradizione, al diritto al patrimonio culturale per tutti.
Cosa cambierà nella fruizione dei beni culturali, in concreto?
Potrebbe non cambiare assolutamente nulla: il vero problema delle convenzioni europee, una volta ratificate, è applicarle in maniera concreta. Pensiamo alla convenzione del paesaggio, che prevedeva che tutte le regioni si dotassero di piani paesaggistici: oggi, dopo vent’anni, sono solo quattro le regioni che hanno operato in questo senso. Se invece i principi del documento diventeranno operativi, potrebbe succedere molto. Secondo la Convenzione, per esempio, è necessario dare più spazio alle comunità e coinvolgere le persone nelle fasi di individuazione, conoscenza, cura, tutela, fruizione, gestione dei beni sul territorio. Insomma, i cittadini devono avere voce in capitolo. Questo in teoria significa anche più tutela sociale e meno danni ai beni culturali. Nel settore della gestione soprattutto ci potrebbero essere importanti cambiamenti, che coinvolgono competenze e professionalità nuove, attori nuovi. Degli esempi ci sono già, ma sporadici e scollegati. Abbiamo bisogno di un cambiamento di mentalità.
Fa riferimento al volontariato?
Non solo. Mi riferisco soprattutto alle professioni dei beni culturali, al terzo settore, che è una maniera diversa di intendere l’impresa: un soggetto che ha un interesse comune e pubblico e non solo privato. Il volontariato è un’altra cosa e trova sicuramente una sponda nella Convenzione di Faro. I volontari non devono essere considerati nemici o concorrenti, ma alleati che svolgono una funzione di supporto, integrativa a quella dei professionisti ma non sostitutiva, anche per creare occasioni di lavoro. Sono quel pezzo di società più sensibilizzato, prezioso per allargare la sfera di persone interessate alla cultura e quindi allargare il mercato del consumo culturale. È vero che in Italia c’è cattivo uso del volontariato per la cultura. Dovremmo lavorare tutti dalla stessa parte per meglio definire le figure professionali della cultura in modo da definire meglio anche il ruolo dei volontari.
Perché secondo lei alcune parti politiche si sono allarmate così tanto dalla ratifica di Faro?
Alcune critiche, che riguarderebbero la presunta copertura delle nostre statue, sono fortemente strumentali e non trovano riscontri nella convenzione. C’è solo un punto in cui si parla di limitazioni, nell’articolo 6, e si dice che la convenzione non può limitare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali. Ma si tratta, per esempio, di un tipo di limitazione che abbiamo vissuto in questi mesi, in cui a causa del lockdown ci è stato proibito di visitare musei e i luoghi edella cultura, e di andare al cinema o a teatro. Ci siamo imposti una limitazione per un bene pubblico superiore. È una limitazione di buon senso. Questo documento afferma che il patrimonio culturale deve essere uno strumento di pace, di soluzione di conflitti, di conoscenza e comprensione reciproca. Non dice che una cultura, per essere rispettosa delle altre, debba essere occultata o repressa. Ricordiamoci che la Convenzione di Faro nasce dopo le guerre sui Balcani, che hanno rappresentato un momento drammatico in Europa, che ha visto anche la distruzione di molti beni culturali appositamente per colpire il nemico. Ecco perché lo scopo della convenzione è quello di ricordare che la cultura deve servire a conoscerci e a rispettarci. Il rischio è piuttosto esattamente il contrario: siccome si dà molto spazio alle comunità locali, se non governiamo bene, potrebbe esserci un eccesso di localismo, che può sfociare in una visione chiusa e un uso strumentale dei beni culturali. Come evitarlo? Invitando gli specialisti a uscire dai propri ambiti ristretti, a dialogare con la società per fare in modo che il patrimonio culturale sia uno strumento di confronto, percepito da tutti come qualcosa da tutelare, difendere, curare.
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