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Giusy Versace. Non chiamatemi Wonder Woman
La disabilità come occasione. Lo sport paralimpico come possibilità di confronto. Giusy Versace, di ritorno da Rio, ci racconta traguardi, delusioni e tutta la fatica che sta dietro all’immagine di super donna con cui tutti la vedono
Nell’incontrare Giusy Versace una semplice intervista diventa una piccola rivelazione. Schietta, ironica e sorridente l’atleta paralimpica è una capace di travolgerti con la sua umanità e trascinarti quasi in una realtà parallela. Una realtà in cui correre, ballare, prodigarsi per gli altri e vivere una vita normale (o meglio straordinaria) è possibile anche dopo aver subito una doppia amputazione agli arti inferiori.
Possibile sì, ma facile no, come lei stessa sottolinea, rispondendo a tutti coloro che pensano, vedendola così intraprendente e impegnata, che il suo sia un percorso ormai privo di difficoltà. Dietro a quell’immagine forte e solare c’è una donna che lotta ogni giorno per restare in piedi su quelle protesi in carbonio, che “a volte fanno sanguinare e provocano ferite che mi costringono a fermarmi”, come ci ha raccontato. Eppure la sua grande forza interiore continua a portarla avanti lungo una strada piena di tappe sorprendenti. I recenti Giochi paralimpici di Rio sono una di queste: “un obiettivo che inseguivo da tempo e che si è rivelata un’esperienza ricca di incontri”. Esperienza fatta anche di delusioni innegabili (la squalifica nei 400 metri per aver toccato la riga dell’avversaria), ma da cui Versace ha saputo uscire, come sempre, arricchita. E proprio la sua ricchezza interiore e le sue lampanti qualità umane l’hanno portata a essere scelta come ambasciatrice di un’interessante indagine sulla “forza interiore femminile” (condotta da Opinion Matters per conto di Special K).
Come hai vissuto le tue prime Paralimpiadi?
Inizio a realizzare ora di essere stata davvero lì. Sono molto felice, perché era un obiettivo che mi ero prefissata da tempo. È stata una grande vittoria essere lì e avere la mia famiglia in tribuna che tifava per me. C’erano mio fratello – che ormai è la mia ombra – il mio fidanzato, un mio carissimo amico e mia madre e mio padre, che sono divorziati e sono riusciti a non litigare per tutta la settimana. Una grande tifoseria, insomma.
Cosa ti porti a casa?
Un’esperienza ricchissima. Ho rivisto atleti con cui avevo gareggiato in passato in altri meeting internazionali e ho avuto anche l’emozione di nuovi incontri. La cosa bella delle Paralimpiadi è che non incontri solo atleti, incontri delle storie, storie come la tua.
Qual è l’aspetto più bello dello sport paralimpico?
Sicuramente la possibilità che ti dà di confrontarti. Questa è una cosa che molti non riescono a vivere nella quotidianità. Quando hai un handicap vivi un po’ nel tuo mondo e pensi di esse l’unico, lo sfigato di turno. Ti guardi attorno e nessuno è come te. Lo sport invece ti aiuta ad uscire di casa, a confrontarti e a incontrare altre storie come le tue o anche più gravi. Io, quando alla sera mi stacco le gambe e vado a dormire mi dico, “Sai che c’è? Alla fine non mi é andata poi così male”. Un’altra cosa bella è che ti permette di superare i tuoi limiti e raggiungere obiettivi che magari non avresti mai immaginato di raggiungere.
Nel 2012 eri andata molto vicina a partecipare alle Paralimpiadi di Londra. Cosa successe?
La Federazione mi escluse a pochi giorni dalla partenza e rimasi a casa come riserva. Ci rimasi molto male. Tanto da pensare di abbandonare tutto. Poi il mio allenatore mi ricordò i veri motivi per cui avevo iniziato a correre e Sky mi chiese di commentare i giochi. Tutto questo mi fece tornare la voglia di scendere di nuovo in pista e così in questi quattro anni mi sono allenata con tanta costanza e determinazione.
A proposito di delusioni. Come hai vissuto la squalifica a Rio nella gara dei 400 metri?
Sarei ipocrita a non ammettere l’amarezza che ho provato. In sette anni di percorso non mi era mai capitato né in allenamento né in gara e mi è successo proprio a Rio, al mio esordio, nella gara più importante per me. Per fortuna mi sono riscattata il giorno dopo nella gara dei 200 metri e ho centrato una finale difficilissima, arrivando terza in batteria e ottava in finale. So che avrei potuto ambire a un posizionamento più alto, ma, come dice mia madre, sono tra le otto più veloci al mondo. Inoltre ho chiuso con un primato personale sui 100 metri che non mi aspettavo. Non posso che essere fiera del percorso che ho fatto. Per questo devo ringraziare non solo il mio allenatore Andrea Giannini, ma anche il gruppo sportivo delle fiamme azzurre della polizia penitenziaria con cui io corro da un anno.
Dove trovi la forza interiore per affrontare le sfide della vita?
La trovo nella fede. Credere molto mi aiuta a dare un senso a ciò che mi è successo, perché comunque ho perso le gambe a 28 anni, quando ero nel pieno della mia crescita personale e professionale. In casi così è molto facile arrabbiarsi con Dio e invece a me non è successo. Anzi mi sono svegliata dal coma con un grande senso di gratitudine e ho iniziato a guardare le mie nuove gambe non come una croce ma come una nuova opportunità, non solo per me, ma anche per gli altri.
Che consigli puoi dare alle donne per tirare fuori la propria forza e uscire da situazioni difficili?
Io ho attinto grande forza nella famiglia e negli affetti. Loro sono stati le mie stampelle. Da soli non si fa niente. A tutte le donne che si sentono sole e sconfortate posso solo consigliare di fare pulizia attorno a sé e iniziare a guardare alle cose belle della propria vita. Qualcosa di bello c’è sempre, solo che a volte non lo vediamo.
In quali momenti della tua vita hai dovuto attingere maggiormente a quella forza?
I primi due anni dopo l’incidente sono stati sicuramente i più difficili, perché mi sono dovuta abituare alla mia nuova vita. Comunque i momenti difficili ci sono sempre, anche oggi, che sono passati undici anni dall’incidente. Vivo indossando arti artificiali che fanno male, che spesso mi fanno sanguinare e zoppicare. Non tutti i giorni sono uguali. La gente mi vede un po’ come Wonder Woman, ma non è così.
Sappiamo che sei appena tornata da Lourdes. Sei andata come pellegrina?
No, come volontaria. Sono diversi anni che ci vado insieme all’U.n.i.t.a.l.s.i. che è per me come una seconda famiglia. Vado lì per lavorare e rendermi utile come posso. Presto servizio al refettorio, servo ai tavoli, aiuto gli amici che non riescono a mangiare da soli. Quello è un posto che mi dà molta energia, forza e ispirazione. Davanti a quella grotta mi dimentico di tutto il resto. Sono lì da sola, prego, rifletto, penso e spesso trovo le risposte alle domande che mi sto facendo da tanto tempo.
Il 21 ottobre farai uno spettacolo benefico a Cosenza ispirato al tuo libro Con la testa e con il cuore si va ovunque. Di cosa si tratta?
Dopo Ballando con le stelle io e Raimondo Todaro (il ballerino con cui ha fatto coppia alla trasmissione, ndr) ci siamo inventati un esperimento a teatro basato sul mio libro. In pratica portiamo in scena la mia storia, ballando. Ho scelto sei momenti clou della mia vita e li racconto supportata da immagini, danza e musica. Si ride e si piange.
Quali sono i tuoi impegni futuri e obiettivi?
Mi dedicherò alla mia onlus Disabili No Limits e metterò un po’ d’ordine nella mia vita. Non sono una che riesce a programmare a lungo termine. Vivo la giornata.
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