Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Global fashion summit. Il mondo della moda si è riunito a Copenaghen
Decarbonizzare la filiera, accelerare un sistema circolare e tutelare i lavoratori: ecco di cosa si è parlato al Global fashion summit.
- Il Global fashion summit di Copenaghen ha riunito a giugno i maggiori esponenti dell’industria della moda.
- Il settore deve puntare velocemente su decarbonizzazione, circolarità e migliori condizioni di lavoro per 70 milioni di impiegati.
- Un’altra necessità è quella di standardizzare e misurare la sostenibilità in modo univoco per tutti.
Non si vedono spesso novecento esponenti dell’industria della moda riuniti nello stesso luogo, la Royal opera house di Copenaghen. Dai grandi colossi come Nike e Puma alle ong, dai giornalisti ai rappresentanti della filiera produttiva, del fast fashion e del mondo del lusso, come il gruppo Kering (che possiede Gucci, Bottega Veneta, Saint Laurent). Si sono trovati tutti sotto lo stesso palco a inizio giugno per il Global fashion summit, tornato per la prima volta in presenza. A promuovere questi stati generali della moda è stata la Global fashion agenda (Gfa), organizzazione no profit che ha l’obiettivo di guidare il settore verso un impatto positivo per le persone e per il Pianeta.
Bisogna accelerare il passo verso il cambiamento
A dirigere le danze è stata l’italiana Federica Marchionni, ceo di Global fashion agenda con un passato da manager internazionale di alto livello (racconta la sua storia nel libro “Una testa piena di sogni”, Roi Edizioni): “Ho preso in mano le redini proprio durante la pandemia, un momento di grande crisi per il mondo e di certo anche per il settore moda. Dal primo summit, nel 2009, Gfa è riuscita a far entrare la sostenibilità nelle agende dei grandi marchi: non si discute più del perché serva un nuovo modello di business, ormai è assodato. Oggi bisogna però accelerare il passo che porta all’azione e al cambiamento”.
Marchionni è un personaggio un po’ fuori dal coro in un ambiente, quello della moda sostenibile, popolato da molti attivisti ed esperti tecnici di materiali: “Non nego che quando sono arrivata alla Global fashion agenda ho impiegato un po’ per attuare dei cambiamenti e farmi apprezzare da una parte di questo mondo, per far capire loro che la sostenibilità è stata sempre al centro del mio percorso di manager, anche quando non si chiamava ancora così. Credo di parlare la lingua delle aziende, di saper trattare con i ceo e di conoscere i loro problemi perché ho svolto lo stesso lavoro. Per questo penso che siano i brand a dover dare la svolta definitiva al proprio modello di business. E credo di poter dare il mio contributo”.
Tre i nodi da affrontare, ma come?
A tutti i partecipanti gli obiettivi erano già chiari ben prima di atterrare a Copenaghen. L’industria della moda deve puntare velocemente su decarbonizzazione, circolarità e migliori condizioni di lavoro per le 70 milioni di persone impiegate nel settore. Sul percorso per raggiungere questi target, invece, regna ancora parecchia lentezza e confusione. “Il 70 per cento delle emissioni del comparto moda arriva a monte della catena di fornitura. Dalla produzione e lavorazione del tessile e dei primi semilavorati. È lì che bisogna agire”, spiega Marchionni.
Come sappiamo, tuttavia, la filiera moda si sviluppa per la maggior parte in Cina e nei paesi del Sudest asiatico, tra Bangladesh, Pakistan, Vietnam, Cambogia, e risulta opaca a volte per le aziende stesse, perse in un intreccio di contratti subappaltati in cui si fatica a dare un volto a tutti i soggetti coinvolti. Per questo la Global fashion agenda lavora direttamente con questi paesi tramite alcune iniziative come il Global circular fashion forum, per stimolare il riciclo tessile; inoltre, il prossimo summit si terrà proprio in quest’area geografica.
Parallelamente, tracciabilità e trasparenza sono altri due fattori cruciali per i brand, sempre più spesso messi di fronte all’ambigua provenienza dei loro capi di abbigliamento. Negli ultimi due anni, inoltre, molte aziende sono state attaccate dalle proteste che le invitavano a pagare i lavoratori e i fornitori anche in caso di ordini cancellati all’ultimo a causa della pandemia, tant’è che sui social media si è diffusa la campagna #PayUp a opera di diverse ong. “Abbiamo prodotto un documento molto utile e dallo spirito pratico, si chiama Gfa monitor ed è a disposizione di tutti”, commenta Marchionni. “Abbiamo individuato cinque ambiti chiave in cui agire e per ognuno abbiamo elencato soluzioni, programmi, casi studio, tecnologie disponibili. Si tratta di: ambienti di lavoro sicuri e rispettosi, salari dignitosi, scelta dei materiali, sistema circolare e tutela delle risorse naturali”.
La questione delle misurazioni
Un altro richiamo importante arrivato dal palco di Copenaghen è stata la necessità di standardizzare e misurare la sostenibilità in modo univoco per tutti, sia per facilitare le aziende a fissare obiettivi misurabili e a monitorare i progressi, sia per il consumatore finale. Negli ultimi anni ha assunto particolare autorevolezza la misurazione di sostenibilità proposta dal cosiddetto Higg index, lanciato dieci anni fa dalla no profit Sustainable apparel coalition, con cui ha collaborato la Global fashion agenda per stendere il Gfa monitor. Di recente, tuttavia, alcuni hanno iniziato a contestare l’Higg, facendo notare che utilizza misurazioni parziali o approssimative e che non vengono presi in considerazione molti fattori chiave, come il metodo di produzione di un materiale o il trattamento riservato ai lavoratori.
In un recente articolo del New York Times viene sottolineato come questo sistema, che di fatto è uno standard accettato e diffuso, sembri valutare in modo più positivo i tessuti derivati dal petrolio rispetto alle fibre naturali, perché queste ultime utilizzerebbero più acqua e pesticidi. La giornalista americana conclude specificando che alla base c’è un generale problema di scarsità di dati affidabili nella moda e che questo è un ostacolo importante: come capire se si sta migliorando il proprio impatto se non lo si misura in modo univoco? “È proprio di questo che stavo parlando. Misurare e standardizzare. L’Higg index è migliorabile? Certo, tutto lo è e ci stanno lavorando. Sono a favore di una pluralità di riferimenti, in modo che ci sia meno rischio di errore, ma è necessario mettersi d’accordo sui principi”, conclude Marchionni.
Dal canto suo, anche la ceo di Sustainable apparel coalition, Amina Razvi, ha rilasciato una nota dichiarando incorrette alcune affermazioni dell’articolo del Times, come il presunto favoreggiamento dell’indice per le fibre sintetiche, ma ha confermato la necessità di lavorare sui dati. A seguito di una notifica da parte della Norwegian consumer authority hanno anche annunciato che faranno condurre un’indagine da un ente terzo su dati e metodologia dell’Higg index.
Il tempo sta scadendo: serve uno sforzo collettivo
Infine, non si può negare una certa lentezza e mancanza di autoregolamentazione dell’industria della moda. Esistono svariate iniziative improntate alla sostenibilità a cui i brand aderiscono in modo volontario, ma sembriamo essere ancora molto lontani dal traguardo a soli otto anni dal 2030, scadenza teorica per il raggiungimento dei Sustainable development goals e prima boa per la riduzione delle emissioni.
“Credo che sia compito del legislatore dare la svolta definitiva a questa transizione – chiarisce Marchionni –, fissare degli obblighi per le aziende e delle tempistiche precise è fondamentale a questo punto. Apprezzo la nuova strategia europea per il tessile sostenibile. Principi come la responsabilità estesa del produttore sul fine vita dei prodotti o facilitare riciclo e riparazione devono diventare una norma”. La stessa Global fashion agenda, in ambito decarbonizzazione, ha scelto di collaborare con Unfccc (la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni unite) per accelerare i tempi verso le emissioni zero dell’industria moda e guidare le aziende in questo percorso.
La parola d’ordine di questa edizione del Global fashion summit era Alleanze per una nuova era, titolo fortemente voluto da Marchionni. L’intesa più chiacchierata, annunciata proprio sul palco del summit, è stata quella tra il colosso cinese dell’ultra fast fashion Shein e l’organizzazione no profit The Or foundation, che opera in Ghana. Fondata dall’americana Liz Ricketts, il focus del loro impegno è sulla circolarità dei capi di abbigliamento nel mercato di Kantamanto, ad Accra, letteralmente invaso dai rifiuti tessili dei paesi occidentali, anche a causa della sovrapproduzione e del modello di consumo promosso dal fast fashion. L’impegno di Shein è di donare 15 milioni di dollari per aiutare a gestire questa emergenza.
Marchionni non si unisce al chiacchiericcio di critiche piovute su questo annuncio e continua sulla linea della collaborazione: “Sono problemi troppo complessi per essere risolti in solitaria. Bisogna abbandonare la tradizionale competizione per raggiungere gli stessi obiettivi, condividere le buone pratiche. È quello che abbiamo cercato di fare anche al summit, favorendo il networking e la presentazione di casi concreti di successo”. Nel suo discorso al summit Marchionni ha voluto ricordare che il verbo “competere” deriva dal latino e significa “andare insieme”. Unirsi per avere maggiori investimenti e capire come rendere disponibili su larga scala le tecnologie e le soluzioni più efficaci: è questo l’unico modo per rendere fruttuosi questi otto anni che abbiamo davanti, non solo per quanto riguarda il settore della moda.
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