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L’anno nero degli ambientalisti, mai così tanti omicidi come nel 2016
Lo scorso anno oltre duecento ambientalisti, quasi quattro ogni settimana, sono stati assassinati in tutto il mondo. Lo rivela il nuovo rapporto di Global Witness.
Chi glielo fa fare? A volte questa domanda sorge spontanea leggendo gli agghiaccianti dati relativi agli ambientalisti assassinati ogni anno in tutto il mondo. Il 2016 è stato l’anno peggiore mai registrato, oltre duecento difensori dell’ambiente sono stati uccisi (più del doppio dei giornalisti ammazzati, 79), quasi quattro persone ogni settimana, per aver cercato di difendere le loro terre, le loro foreste, i loro fiumi, insomma, i posti che chiamano casa. Chi glielo fa fare ci chiedevamo, ebbene in molti casi si tratta di una necessità dettata dalle contingenze, da quelle battaglie dipende la loro stessa sopravvivenza (l’espropriazione di una foresta che offre sostentamento, la distruzione di un fiume che fornisce acqua potabile, la realizzazione di un impianto che avvelena l’aria), altre volte invece è quasi una missione, che spinge donne e uomini a mettere in gioco la propria vita e quella dei propri cari pur di difendere l’ambiente.
Aumentano gli ambientalisti assassinati
Il numero di ambientalisti uccisi è in costante aumento, nel 2014 venivano assasinati due attivisti ogni settimana, nel 2015 le vittime sono state 185, con un incremento del 73 per cento rispetto all’anno precedente, mentre nel 2016 gli omicidi, come detto, sono stati duecento. È quanto emerso dall’annuale rapporto pubblicato dalla ong britannica per la difesa dei diritti umani Global Witness.
I difensori dell’ambiente non muoiono, si moltiplicano
Gli omicidi documentati dal rapporto, il cui numero è stato calcolato per difetto, considerate le scarse informazioni disponibili, riguardano 24 paesi (contro i 16 nel 2015). L’America Latina resta l’area più colpita da questo fenomeno, con circa il 60 per cento degli omicidi. Allarmante anche la tendenza in India, il cui numero di questi reati è triplicato rispetto al precedente rapporto. L’omicidio è l’ultimo strumento utilizzato per zittire coloro che provano a difendere l’ambiente, dopo minacce, ricatti, arresti, pestaggi, rapimenti e aggressioni sessuali. Questi omicidi sembrano però sortire l’effetto opposto di quello che si augurano i mandanti, “i difensori dell’ambiente non muoiono – si legge nel rapporto di Global Witness – si moltiplicano”.
I paesi più pericolosi per gli ambientalisti
Il paese in cui lo scorso anno sono stati ammazzati più attivisti ambientali è il Brasile (terra dalle grandi e appetibili ricchezze naturali), con il triste record di 49 omicidi. È però il Nicaragua a detenere il maggior numero di omicidi pro capite, 11. Anche la Colombia, nonostante il recente accordo di pace, è stata insanguinata dalla morte di 37 ambientalisti, mentre per i ranger che pattugliano i parchi nazionali la nazione più pericolosa è la Repubblica democratica del Congo, con 9 ranger uccisi dai bracconieri. Il settore più rischioso è invece quello dell’estrazione mineraria, al quale sono legati almeno 33 omicidi.
Non c’è più posto per gli indigeni
Quasi il 40 per cento degli attivisti assassinati erano indigeni, gli ultimi custodi di preziosi ecosistemi i cui diritti interessano poco o niente ai governi che dovrebbero tutelarli. In molti casi progetti dal grande impatto ambientale, come la realizzazione di dighe e centrali idroelettriche, vengono imposti alle comunità native senza il loro consenso, oppure quest’ultimo viene ottenuto con violenza dalle forze dell’ordine.
Omicidi di stato
Secondo Global Witness eserciti e forze di polizia sono considerati responsabili di almeno 43 omicidi di attivisti nel corso del 2016. Gli ambientalisti vengono trattati come criminali e devono affrontare multinazionali e governi. “Gli attivisti vengono assassinati, attaccati e criminalizzati dalle persone che si suppone dovrebbero proteggerli”, ha affermato Ben Leather di Global Witness.
Berta e i suoi fratelli
Uno dei più noti casi di omicidi di ambientalisti è quello di Berta Cáceres, assassinata nel marzo 2016, leader del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh) che da anni si batteva per difendere i diritti della sua comunità e per proteggere le terre ancestrali del suo Paese dalla deforestazione e dallo sfruttamento. Tra gli altri martiri dell’ambiente ricordiamo Isidro Baldenegro López, contadino e leader della comunità degli indios tarahumara, ucciso per essersi opposto alla deforestazione delle antiche foreste della Sierra Madre, minacciate dalla deforestazione illegale e dai narcotrafficanti, e Gloria Capitan, attivista filippina che guidava un movimento contrario alla costruzione di una centrale a carbone, assassinata sotto gli occhi del nipote di otto anni.
Cittadini, non sudditi
L’elenco è purtroppo lungo e ognuna di queste persone meriterebbe di essere ricordata, ognuno di loro ha deciso, a proprio rischio, di non voltare la testa dall’altra parte, come invece fa la maggior parte dei cittadini convinta di non potersi opporre a governi e grandi aziende. Ognuna di queste persone si è immolata per salvare l’ambiente, per salvare la propria umanità e, un po’, anche per noi.
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