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Il gigante petrolifero Equinor ha ritirato il progetto per trivellare la Grande baia australiana, una delle aree marine più selvagge dell’Australia. Vittoria per le comunità di attivisti e surfisti che però chiedono che venga protetta per sempre.
Possono tirare un respiro di sollievo gli attivisti, i surfisti, le comunità locali e la grande varietà di specie che abitano uno dei luoghi più incontaminati del mondo, che potrà per fortuna rimanere tale. La Grande baia australiana (Great Australian Bight), un’immensa e selvaggia area marina che praticamente occupa tutta la costa meridionale del paese per migliaia di chilometri, non sarà infatti invasa dalle trivellazioni che il gigante petrolifero Equinor stava progettando nella zona.
Esattamente un anno fa la compagnia petrolifera norvegese aveva pubblicato la bozza del progetto, includendo il piano ambientale e lasciandolo aperto ai commenti del pubblico prima di essere mandato al vaglio delle autorità del governo australiano. Il progetto mostrava che, in caso di una fuoriuscita di petrolio, la quasi totalità della baia sarebbe potuta essere invasa da una marea nera. Da lì, è iniziata una mobilitazione globale che ha visto attivisti, surfisti e amanti del mare – il movimento chiamato Fight for the Bight – prendere il largo per cercare di fermare il piano. Eppure, lo scorso dicembre il governo australiano – dopo aver esaminato il progetto – lo aveva approvato. La baia e la sua natura incontaminata sembrava condannata alla sete di petrolio.
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Poi, il passo indietro di Equinor. La compagnia petrolifera, infatti, ha comunicato la decisione di voler abbandonare i piani di trivellazioni nella baia. “Dopo una revisione olistica del nostro portfolio di esplorazioni petrolifere, siamo arrivati alla conclusione che il potenziale del progetto non è commercialmente competitivo se paragonato ad altre opportunità di esplorazioni”, ha infatti affermato il country manager dell’azienda, Jone Stangeland. Una motivazione, però, che sembra più legata ai ricavi economici che alle preoccupazioni del rischio di un eventuale disastro ecologico.
In questo senso, con il suo progetto che valeva 200 milioni di dollari, Equinor non è la prima a ritirare dei piani di esplorazioni petrolifere dalla baia: prima di lei c’erano già stati i colossi BP (responsabile per il disastro della Deepwater Horizon) e Chevron. Inoltre, il governo australiano sembra volenteroso di trovare investimenti per sfruttare la ricchezza petrolifera della zona, definendo infatti la decisione di Equinor come “estremamente deludente” e sottolineando la necessità del paese di aumentare la propria sicurezza e indipendenza petrolifera. “Una volta eravamo autosufficienti ma ora dipendiamo dal petrolio importato”, ha twittato ad esempio il senatore Matthew Canavan. E, infine, il ministro delle Risorse australiane Keith Pitt ha affermato che il paese continuerà ad incoraggiare nuove proposte di trivellazioni nelle proprie acque.
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Ciononostante, la vittoria è stata accolta con grande entusiasmo dagli attivisti che si sono battuti per mesi facendo sentire la propria voce in ogni occasione e angolo del mondo, che però ancora riconoscono il pericolo di ritrovarsi nella stessa situazione in futuro. Proprio per questo chiedono alle autorità locali e al governo di attuare misure di protezione permanente di un luogo di inestimabile ricchezza naturale: dove gli scienziati affermano che l’85 per cento delle specie che vi abitano non si trova da nessun’altra parte sul Pianeta, dove le balene arrivano dall’Antartide per riprodursi e crescere i piccoli, e dove – come affermato dall’attivista di Greenpeace Jamie Hanson – ci sono più specie uniche che nella Grande barriera corallina.
Il petrolio deve rimanere fuori dalla baia, per scongiurare il rischio di futuri disastri ambientali e per far sì che gli attivisti non debbano più afferrare cartelli e tavole per protestare in mezzo al mare, ma solo per cavalcare le onde di questo incredibile incontaminato luogo che deve essere protetto una volta per tutte.
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