Il futuro del Sahel è legato a doppio filo alla Grande muraglia verde africana, un colossale progetto di riforestazione e gestione sostenibile del suolo.
C’è già chi la definisce come una delle future meraviglie del mondo. Quel che è certo è che si tratta di un progetto massiccio e visionario, nato per diffondere prosperità e resilienza in oltre venti Paesi africani. E al quale la Fao (organizzazione Onu per l’alimentazione) di recente ha rinnovato il proprio supporto, fianco a fianco con l’Unep (Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite) e l’Unccd (Convenzione Onu per combattere la desertificazione). Stiamo parlando della Grande muraglia verde che attraverserà la regione del Sahel.
By 2030, Africa’s ongoing Great Green Wall will become world’s largest living structure
– $8bn project – Planting wall of trees 7,600 km long and 15 km wide across 20 countries – Fights desertification by restoring 100m hectares of degraded land – Massive job creation#climatepic.twitter.com/NHk8XEcEze
Tra le zone in cui gli effetti dei cambiamenti climatici si toccano con mano c’è proprio il Sahel, territorio semi-arido che taglia orizzontalmente il Continente, delimitato a nord dal deserto del Sahara e a sud dalla savana del Sudan. Un recente studio dell’università del Maryland ha infatti dimostrato che a partire dal 1920 la superficie del deserto si è estesa del 10 per cento, fino ad arrivare agli odierni 8,6 milioni di chilometri quadrati. Questo fenomeno è la risultante soprattutto del calo delle precipitazioni, che va di pari passo con l’aumento delle temperature e può essere ritenuto solo in parte come un ciclo naturale. Una larga quota di responsabilità va attribuita ai cambiamenti climatici – e, quindi, alle attività umane.
A pagare le conseguenze dell’avanzata del Sahara sarà soprattutto la regione del Sahel, che già versa in condizioni profondamente precarie. Lo dimostra in modo eloquente la situazione del lago Ciad, che un tempo era il quarto più grande d’Africa. Complici anche le dighe costruite lungo i suoi emissari, ha perso il 90 per cento della superficie tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta, con tutto ciò che ne consegue per le comunità che vivono sulle sue sponde. La popolazione affamata, impoverita e sofferente diventa facile preda del proselitismo da parte dei jihadisti di Boko Haram. La crisi ambientale, così, diventa anche crisi sociale e umanitaria. E non si può certo sperare che si risolva spontaneamente. Nella regione del Sahel le temperature medie stanno aumentando a un ritmo ben più rapido rispetto alla media globale. Tutto questo mentre la sua popolazione è destinata a raddoppiare entro il 2050.
Il sogno di una barriera di alberi che tiene a freno l’avanzata del deserto risale addirittura agli anni Settanta. Nel 2007 l’Unione Africana l’ha trasformato nel progetto della Grande muraglia verde, che prevede di riportare salute e fertilità in una vastissima porzione del Continente tramite un mix di pratiche sostenibili di gestione del suolo. “Al tempo stesso, la muraglia è una metafora che esprime la solidarietà tra i paesi africani e i loro sostenitori”, aggiunge la Fao.
Oggi l’iniziativa coinvolge i governi di ventun Paesi, insieme a organizzazioni sovranazionali (Global environmental facility, Banca mondiale, Unione europea, Fao), istituti di ricerca, società civile e movimenti nati dal basso. Il territorio interessato è una sorta di corridoio, lungo circa 7.800 chilometri e largo 15, che separa il Senegal da Gibuti, nel Corno d’Africa. Vi abitano 228 milioni di persone, poco meno della metà rispetto all’intero territorio di Nord Africa, Sahel e Corno d’Africa.
L’area si estende su 780 milioni di ettari, più del doppio rispetto alla superficie dell’India. 166 milioni (cioè il 21 per cento) potrebbero essere salvati se venissero piantati nuovi alberi. Si tratta di foreste, terreni coltivabili, acquitrini e insediamenti umani. Tutto il resto è costituito da praterie, zone rocciose e altre aree che necessitano di interventi diversi.
Secondo una recente stima, per ciascuno Stato servono risorse comprese fra i 40 e i 130 milioni di dollari l’anno. Diventa quindi imprescindibile l’intervento di finanziatori internazionali (come le banche multilaterali per lo sviluppo), investitori privati e meccanismi finanziari innovativi.
Currently, millions of rural youth are facing an uncertain future due to lack of decent jobs and continuous loss of #livelihoods caused by #landdegradation and falling yields. By 2030, the #GreatGreenWall aims to grow 10m green jobs powering communities towards a brighter future! pic.twitter.com/OA3lZ6COyN
Ripristinare il suolo delle aree degradate, renderle più resilienti e incrementare la resa agricola significherebbe anche contribuire alla sicurezza alimentare e al benessere economico della popolazione del Sahel. Un tema quanto mai urgente. Se è vero infatti che nel mondo, negli ultimi trent’anni, circa 1,1 miliardi di persone si sono risollevate dalla povertà estrema (che corrisponde a sostentarsi con meno di 1,90 dollari al giorno), è vero anche che le condizioni di vita nell’Africa subsahariana restano particolarmente dure. Anche per via della crisi ambientale.
“È una terribile ingiustizia che le persone che soffrono di più siano i contadini più poveri del mondo”, si legge nel Goalkeepers Report redatto dalla Bill & Melinda Gates Foundation. “Non hanno fatto nulla per provocare i cambiamenti climatici ma, dipendendo dalle piogge per la propria sussistenza, sono in prima linea nel farvi fronte. Questi agricoltori non hanno margine di errore. Non hanno risorse per adattarsi a siccità e alluvioni, alle epidemie che colpiscono loro mandrie o ai nuovi parassiti che divorano i loro raccolti”, continua lo studio. Numericamente i piccolissimi coltivatori sono molti di più rispetto ai produttori intensivi, ma si devono accontentare di un reddito sensibilmente più basso. Questo per la mancanza di conoscenze tecniche, sementi resistenti, fertilizzanti efficaci, accesso al credito e ai mercati.
La crescita economica del Continente non può prescindere dall’eradicazione della povertà estrema e di tutti i suoi risvolti drammatici. Per citarne uno, il tasso di mortalità infantile nel Sahel è più alto rispetto a qualsiasi altra zona del Pianeta. Il che significa, per esempio, che in Ciad ogni giorno si verificano più decessi di bambini rispetto a quelli in un intero anno in Finlandia. Nell’Africa subsahariana in media le ragazze vanno a scuola per due anni in meno rispetto ai maschi e ciò si ripercuote sul mercato del lavoro, dove la loro partecipazione è più bassa di 24 punti percentuali. Da questi dati è evidente il motivo per cui gli stati del Sahel siano relegati alle ultime posizioni dello Human Capital Indexcon cui Banca mondiale e Fondo monetario internazionale quantificano il contributo della salute e dell’educazione alla produttività della prossima generazione.
A che punto è la Grande muraglia verde in Africa
Se tutto andrà secondo i piani, la Grande muraglia verde sarà la chiave di volta per il futuro del Continente. Arrivando nel 2030 a catturare 250 milioni di tonnellate di CO2 dall’atmosfera e creare 10 milioni di posti di lavoro. Oggi, però, a che punto siamo?
“I risultati preliminari dimostrano che i territori degradati possono essere recuperati, ma questi successi non sono nulla in confronto a ciò che bisogna ancora fare”, sottolinea un report della Fao. L’organizzazione ha contribuito a recuperare 50mila ettari di terreni improduttivi negli ultimi cinque anni, contribuendo positivamente alla qualità della vita di circa un milione di persone in oltre quattrocento villaggi. I progetti pilota hanno impiegato 12 milioni di sementi da un centinaio di specie autoctone, privilegiando la gomma arabica, il foraggio, il dattero del deserto e i semi oleosi come l’anacardo, che rappresentano una fonte di reddito per le comunità rurali più vulnerabili. In particolar modo per le donne.
Tra Burkina Faso, Mali e Niger finora è stato creato un corridoio verde lungo oltre 2.500 chilometri, coinvolgendo gli abitanti di 120 villaggi nella piantumazione di una cinquantina di specie native. In Nigeria sono stati creati 20mila posti di lavoro, in Sudan sono stati riportati in salute circa 2mila ettari. Ma entro il 2030 bisognerà accelerare drasticamente il ritmo. Puntando, ogni anno, a investire 3,6 miliardi di dollari per riportare in salute 8,2 milioni di ettari.
Più brusco il commento di Laureline Savoye, autrice di un recente reportage: “Sulla carta è vero che sembra una soluzione miracolosa, ma il problema è che il progetto procede a passo di formica”. La giornalista di Le Monde si è recata in Senegal, spesso citato come eccellenza nonostante sia stato rimboschito meno del 2 per cento degli 850mila ettari previsti. Per alcune aree dove le operazioni sono andate a buon fine, inoltre, ce ne sono altrettante (magari a pochi chilometri di distanza) in cui le piante sono rade e già brulle. A detta di Pap Sarr, ex-direttore tecnico del progetto, i principali ostacoli sono due: la scarsità di piogge e la difficile coesistenza con il bestiame da pascolo, che spesso distrugge i germogli appena spuntati.
Per uscire dall’impasse il governo ha assoldato Haïdar El Ali, già ministro dell’Ambiente e ora della Pesca, reduce dal successo della riforestazione di 152 milioni di mangrovie nella regione del Casamance, nel Senegal meridionale. Il suo piano prevede di difendere le colture dagli animali e scegliere le specie meglio capaci di sopportare il clima arido e semiarido che caratterizza il territorio.
Inizia il decennio dell’Onu per il ripristino dell’ecosistema
La Grande muraglia verde è il progetto di punta del decennio dell’Onu per il ripristino dell’ecosistema, che si apre nel 2021 per concludersi nel 2030. La grande sfida è quella di invertire il processo di degrado degli ecosistemi, che di per sé è antico di millenni ma ha subito una brusca accelerazione con l’incremento della popolazione, l’industrializzazione e il consumo indiscriminato delle risorse naturali. Oggi la degradazione del suolo ha un impatto negativo sulle condizioni di vita di almeno 3,2 miliardi di persone e compromette servizi ecosistemici che valgono circa il 10 per cento del pil globale annuo. Danni che potrebbero essere ulteriormente amplificati dai cambiamenti climatici.
Basti pensare all’agricoltura, a cui è dedicato circa il 40 per cento delle terre emerse. Già oggi circa il 20 per cento della superficie vegetata del Pianeta fa fronte a un calo di produttività. Secondo le stime della Global partnership on forest and landscape restoration, entro il 2050 la resa media delle colture crollerà del 10 per cento. Con picchi negativi del 50 per cento in alcune regioni.
Con questa chiamata all’azione globale, le Nazioni Unite invitano i governi, la comunità scientifica e gli investitori a unire le forze per rcuperare fino a due miliardi di ettari di terre disboscate e degradate, un’area più vasta del Sudafrica. Per cominciare, bisogna rinvigorire ed estendere le iniziative già in essere. Prima fra tutte la Bonn Challenge, lanciata nel 2011 con l’obiettivo di recuperare e riforestare 350 milioni di ettari entro il 2030. Il che equivale, ogni anno, a sequestrare dall’atmosfera 1,7 gigatonnellate di CO2 equivalente e generare benefici economici netti pari a 170 miliardi di dollari.
Imagine a world where the relationship between humans & nature is restored, the area of healthy ecosystems increased, their loss & degradation brought to a halt. It's possible. Everyone is invited to help shape the UN Decade on Ecosystem Restoration ⤵️https://t.co/puU7Kl88Rg
Prima ancora che arrivi a compimento l’ambizione della Grande muraglia verde, già si ragiona su come estenderla oltre i confini del Continente. Quest’evoluzione è stata annunciata dal direttore generale della Fao, Qu Dongyu, nella cornice del Climate action summit che si è tenuto a New York a settembre 2019. Quando manca una progettualità sull’uso del suolo, ha spiegato, la rapida espansione delle aree urbane va di pari passo con la distruzione indiscriminata di foreste e spazi verdi. Se non si invertirà la rotta, le città saranno sempre più vulnerabili a gravi episodi di siccità, tempeste di sabbia e polvere, ondate di calore, venti record, inondazioni e frane.
L’idea elaborata dall’architetto italiano Stefano Boeri è quella di creare entro il 2030 una rete di foreste urbane connesse tra loro, che copriranno una superficie complessiva di 500mila ettari disseminata tra le città del Sahel e dell’Asia centrale. Nell’intento dei promotori, questa Grande muraglia verde per le città si inserirà all’interno di un più vasto programma di ripristino e tutela di altri 300mila ettari di foreste già esistenti. “Siamo entrati in una nuova fase della storia umana nella quale vedremo finalmente una nuova alleanza tra le foreste e le città, cioè tra due ambienti che la nostra specie ha sempre tenuto separati in quanto espressione l’uno del massimo di artificio e l’altro del massimo di naturalità”, commenta Boeri. “Gli alberi e i boschi non saranno più solo una presenza decorativa o un ambiente da circoscrivere in aree protette, ma diventeranno parte integrante della sfera di vita di milioni di cittadini del mondo”.
Si parla tanto di finanza climatica, di numeri, di cifre. Ma ogni dato ha un significato preciso, che non bisogna dimenticare in queste ore di negoziati cruciali alla Cop29 di Baku.
Basta con i “teatrini”. Qua si fa l’azione per il clima, o si muore. Dalla Cop29 arriva un chiaro messaggio a mettere da parte le strategie e gli individualismi.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, intervenendo alla Cop29 a Baku, ha ribadito il proprio approccio in materia di lotta ai cambiamenti climatici.
Durante la cerimonia di apertura della Cop29 il segretario generale delle Nazioni Unite ha lanciato un nuovo accorato appello affinché si agisca sul clima.