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Cos’è il greenwashing cosmetico e come riconoscerlo. A partire dall’etichetta
Il greenwashing è un’operazione che enfatizza le credenziali ambientali di un prodotto facendolo passare per ecologico quando in realtà non lo è. Impariamo a decodificarlo anche nel settore della cosmesi.
- Il greenwashing, l’ecologia di facciata, è favorito dalla mancanza di una regolamentazione ufficiale univoca che definisca il significato di “naturale” nei cosmetici e di una legislazione ufficiale sul cosmetico biologico in Europa.
- La scorciatoia per risalire a una buona naturalità del cosmetico è verificare che sia biologico certificato.
- Leggere attentamente l’etichetta, e l’Inci in particolare, aiuta ad individuare un cosmetico dal buon profilo green, sebbene sprovvisto di certificazione bio.
Procede a gonfie vele il mercato dei cosmetici a connotazione biologico naturale e sostenibile: secondo il Centro studi di Cosmetica Italia, il fatturato di questa categoria a fine 2022 ha raggiunto quota 16 per cento del totale dell’industria cosmetica, per un valore di oltre due miliardi di euro (più 13 per cento rispetto al 2021). Ma, di pari passo all’aumento dell’offerta di questo segmento, cresce il fenomeno del greenwashing cosmetico, neologismo originato dalle parole “green”, verde, e “whitewash” – che letteralmente significa “imbiancare” –, per definire le pratiche di marketing che enfatizzano le credenziali ambientali di un’azienda o la composizione del cosmetico facendolo passare per ecologico quando in realtà queste caratteristiche sono marginali o, peggio, totalmente assenti. Del tema, tanto d’attualità quanto scottante, è tornata recentemente a farsi portavoce anche Natrue. L’associazione internazionale non profit, ai cui rigorosi standard di certificazione fanno riferimento molti dei marchi bio più diffusi, ha da poco lanciato sul suo canale YouTube un video, che con un linguaggio moderno e una comunicazione visiva ritmata e incalzante affronta anche la spinosa questione del greenwashing.
La certificazione bio aiuta a schivare il greenwashing cosmetico
La pratica del greenwashing trova terreno fertile nella mancanza di una regolamentazione ufficiale univoca che definisca il significato di “naturale” nei cosmetici e di una legislazione ufficiale sul cosmetico biologico in Europa. “Va riconosciuto, però, che in ciascun Paese già da anni sono attivi enti privati, che hanno stilato disciplinari a garanzia dell’intero ciclo produttivo del cosmetico e che certificano se gli ingredienti contenuti nel prodotto siano naturali e biologici, ossia se contengono principi attivi ricavati dal mondo vegetale o animale senza danno per gli animali stessi. Ma ogni ente ha i suoi standard, pertanto la presenza di una certificazione bio in etichetta è sì una garanzia del buon profilo naturale e sostenibile del cosmetico, ma pur sempre relativizzata ai parametri dell’ente certificatore”, spiega Pucci Romano, specialista in dermatologia, presidente Skineco (Associazione internazionale di ecodermatologia). Variabili a parte, una semplificazione per sottrarsi al greenwashing è dunque cercare in etichetta il logo bio. “La certificazione biologica attesta, tra l’altro, la presenza nel cosmetico di almeno il 95 per cento di materie prime vegetali e che almeno il 70 per cento di questi ingredienti siano anche bio, dunque non provengano ad esempio da coltivazioni ogm o che prevedono l’uso di pesticidi”, dice Romano. I loghi da cercare sono tra gli altri quelli di Demeter, Ecocert, Ccpb, Icea, gli enti certificatori privati che garantiscono gli standard per i cosmetici più accreditati, come Natrue e Cosmos, i quali sono diversi tra loro non solo per quanto concerne il contenuto delle sostanze naturali e bio, come già sottolineato, ma anche degli ingredienti sintetici ammessi, come i coloranti e i conservanti. Nel caso di Natrue, ad esempio, per ottenere la certificazione il prodotto deve includere almeno il 75 per cento di ingredienti bio. Un’altra certificazione, che aiuta anche ad eludere il greenwashing, è la B Corp, che sta per Certified benefit corporation ed individua le aziende che si impegnano a rispettare determinati standard (trasparenza, performance e responsabilità) e operano in modo tale da ottimizzare il loro impatto positivo verso i dipendenti, le comunità nelle quali operano e l’ambiente.
Come alcune aziende fanno greenwashing cosmetico e cosa cercare nelle etichette
Per un cosmetico naturale generico il rischio di ricadere in un profilo eco poco virtuoso è più facile rispetto a uno bio. A cosa prestare attenzione, dunque? Il primo passo è andare oltre le apparenze, all’impatto delle confezioni spesso proposte in verde e con disegni di fiori e foglie, che cercano così di toccare le corde emotive della sensibilità ambientale. “Diffidare dei messaggi vaghi, come ‘consapevole’, ‘ecobio’, ‘sostenibile’ o di slogan come ‘non contiene’, che può essere utilizzato per depistare sul reale contenuto della formula. Ancora: claims come ‘Contiene cellule staminali vegetali che rigenerano la cute’ non sono scientificamente corretti perché, nel caso specifico, questi ingredienti, seppur efficaci nella formulazione di un buon cosmetico, sono completamente diversi dalle cellule staminali cutanee, quindi non possono rigenerare la pelle”, sostiene Romano, sottolineando come sia invece apprezzabile la trasparenza. Un esempio sono le confezioni che riportano un sito internet dove poter conoscere la filosofia del marchio, quello che sta facendo per ridurre le emissioni e l’impatto del packaging, ma anche i test sostenuti per validare l’efficacia dei prodotti (oltre l’autovalutazione). Un altro passo è imparare a leggere l’Inci (International nomenclature of cosmetic ingredients). “Il linea di massima, un prodotto green è di buona qualità se è composto per almeno il 98-99 per cento da ingredienti di origine naturale, mentre per il restante può contenere molecole di sintesi, come stabilizzanti e conservanti, fondamentali tra l’altro per la sicurezza del cosmetico”, spiega Romano. In sostanza, è importante trovare gli ingredienti naturali in alto nell’Inci: quelli “civetta” (citati solo per attirare) sono pochi e in percentuali così minime da trovarsi in fondo insieme ai conservanti. “Nell’Inci vige infatti l’ordine decrescente: più gli ingredienti eco sono in alto e sono numerosi, più il cosmetico può definirsi naturale, ricordando che le sostanze di origine vegetale sono descritte con il nome botanico secondo Linneo, seguito dalla parte di pianta utilizzata e il tipo di derivato riportati in inglese”, dice Romano. Gli ingredienti di origine sintetica sono riconoscibili, invece, dalla denominazione ufficiale in inglese.
Attenzione agli ingredienti di sintesi ammessi, tuttavia controversi
Un altro indizio per capire se il cosmetico verde ma privo di certificazione bio non ricada in un sospetto greenwashing è l’assenza (all’interno di quella percentuale minima di ingredienti chimici ammessi) di sostanze non biodegradabili molto impattanti sull’ambiente o che allo stato attuale delle ricerche scientifiche si ritiene possano creare problemi di varia natura all’organismo e/o all’ambiente. “A proposito d’impatto ambientale di un cosmetico, è impossibile generalizzare e circoscriverlo a un dato univoco, perché dipende in misura molto significativa dalla composizione del singolo prodotto. A titolo d’esempio e secondo il calcolo Ecolabel, uno shampoo che contiene un profumo generico ha un impatto sugli organismi acquatici molto elevato, intorno a mille. Se il profumo è biodegradabile, l’impatto scende a cento, se la fragranza è poco biodegradabile e poco tossica per gli organismi acquatici, cala ulteriormente a dieci. Ecco perché la moderna cosmetologia dovrebbe ragionare su un doppio binario, scegliendo sostanze che siano innocue per tutti gli organismi, umani e animali”, osserva Fabrizio Zago, chimico industriale e ideatore dell’EcoBioDizionario. Oltre ai profumi, tra gli inquinanti più impattanti ci sono i siliconi, i petrolati (anche se caduti in disuso) e le microplastiche, attualmente vietate per legge nei detergenti e negli esfolianti a risciacquo, quindi ancora permessi in tutte le altre formulazioni (in Inci possono essere presenti, tra l’altro, come: Polyethylene (PE), Polymethyl methacrylate (PMMA), Nylon, Polyethylene terephthalate (PET) o Polypropylene – PP -).
Altre sostanze controverse impiegate nella produzione dei cosmetici sono i silossani (composti chimici formati da silicio, ossigeno e idrocarburi alcani, analoghi dei siliconi): secondo uno studio americano-canadese del 2018, pubblicato sulla rivista Environmental science and technology, soprattutto di prima mattina, “ora di punta” per la detersione e la cura della pelle, rilasciano nell’aria una quantità di inquinanti molto significativa. Sempre tra gli ingredienti più dibattuti ci sono i tensioattivi anionici, di origine sintetica, come Sodium lauryl sulfate (SLS) e il Sodium laureth sulfate (SLES). “Uno shampoo o altro detergente viso o corpo con un buon profilo ecologico non dovrebbe prevedere tensioattivi, come nel caso degli oli lavanti, o contenerne pochi e di origine vegetale, meglio tollerati anche dalla pelle, come Polysorbate e Sodium lauroyl glutamate”, dice Romano. Riguardo ai conservanti (comunque necessari per garantire la stabilità dei cosmetici, in particolare di quelli a base acquosa come le creme o i sieri): tra gli “osservati speciali” ci sono i parabeni, perché si sospetta “disturbino” gli ormoni dell’organismo (i cosiddetti interferenti endocrini) e l’ecosistema marino. “Chi cerca un buon profilo eco-friendly dovrebbe verificare l’assenza di queste sostanze – nell’Inci di solito finiscono per “paraben” preceduti da un termine inglese, per esempio Methylparaben – e la presenza di conservanti alternativi ritenuti biocompatibili, come acido benzoico, sodio benzoato, acido sorbico e i suoi sali, potassio sorbato e sodio sorbato, tocoferolo (vitamina E) oppure oli essenziali che, in adeguate percentuali, funzionano anche da buoni conservanti naturali, come il tea tree oil”, dice l’esperta.
Confezioni minimali e a basso impatto ambientale
Un altro fattore principe nel delineare un buon profilo ecosostenibile del cosmetico è il packaging. Un punto decisamente a favore è che il flacone o il barattolo sia di bioplastiche derivate da materiali organici, come mais, riso, scarti del legno. Oppure che provenga da materiali riciclati e riciclabili come la plastica stessa (l’ideale è che sia stata raccolta lungo le spiagge o negli oceani). Sono virtuosi sotto il profilo eco anche materiali come l’alluminio, la carta e il vetro, ma a patto che siano il meno spessi e ingombranti possibili. “Va considerato, infatti, che soprattutto il vetro è un materiale più pesante da trasportare, ad esempio, della bioplastica, e che per questo comporta una maggiore quantità di emissioni di CO2”, osserva Romano. Altri punti a favore sono le confezioni ricaricabili, a casa o nel punto vendita, e quelle mono-materiale, perché semplificano lo smaltimento e il riciclo del prodotto una volta consumato. Anche il design è una discriminante: le confezioni facilmente impilabili e semplici da trasportare riducono il numero di camion necessari nei vari spostamenti e le conseguenti emissioni.
Qualche puntualizzazione sulle certificazioni vegan
Un po’ diverso da quanto fin qui detto è il discorso per chi desidera orientarsi verso un cosmetico vegan. Il primo step è verificarne la certificazione: i loghi più diffusi sono “V” con il girasole stilizzato in verde, il marchio internazionale rilasciato dalla Vegan society inglese, e il marchio italiano VeganOk, spesso affiancato a Lav. Ma da sola la certificazione vegan non assicura che il cosmetico sia anche eco-sostenibile, perché un prodotto vegano esclude totalmente gli ingredienti di origine o derivazione animale, come latte, bava di lumaca, cera d’api, ma a differenza di quelli bio può includere ingredienti sintetici anche in buone percentuali. “Un buon profilo verde e vegan insieme è dato, quindi, dalla doppia certificazione: vegan e bio o dalla presenza di una percentuale di almeno il 98-99 per cento di ingredienti vegetali e dalle altre variabili già elencate. Va considerata con riserva, invece, la presenza di loghi o diciture “cruelty free” generiche: possono essere borderline e veicolare messaggi ingannevoli soprattutto se compaiono su etichette già dubbie per altri motivi, perché fin dal 2013 una norma dell’Unione europe vieta in ambito comunitario i test sugli animali sia sul prodotto finito sia sulla materia prima di qualsiasi cosmetico, senza esclusione alcuna”, conclude Romano.
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