Per la prima volta, le proteste ambientaliste contro il greenwashing irrompono all’appuntamento nazionalpopolare per definizione: il festival di Sanremo.
Durante il festival di Sanremo, l’evento nazionalpopolare per eccellenza, si è parlato molto di greenwashing.
Le organizzazioni ambientaliste (Greenpeace, Fridays for future e Legambiente) hanno contestato Plenitude, main sponsor della kermesse.
Non esiste una vera e propria legge sul greenwashing, ma diverse normative italiane ed europee impongono chiarezza e trasparenza nella comunicazione commerciale.
È venerdì 4 febbraio e al festival di Sanremo è il momento della Rappresentante di Lista che ha scelto Be my baby delle Ronettes per la serata dedicata alle cover. Al termine dell’esibizione il cantautore e producer Cosmo, loro ospite, urla: “Stop greenwashing!”. Così il tema, che da giorni era al centro delle polemiche sui social media, in quel preciso momento approda sul palco dell’Ariston, sotto gli occhi dei 14,7 milioni di persone che lo seguono in televisione.
Plenitude al festival di Sanremo
Al centro del dibattito è il main sponsor della kermesse, Plenitude, il nuovo brand che sostituisce Eni luce e gas, che trasforma il tradizionale red carpet in green carpet e compare anche durante la trasmissione. Dopo la trasformazione in società benefit, il cane a sei zampe si tinge di verde entrando nel business del fotovoltaico e della mobilità elettrica e promettendo di fornire il 100 per cento di energia decarbonizzata a tutti i clienti entro il 2040. L’obiettivo da centrare entro 2030 è il taglio del 25 per cento delle emissioni dell’intera azienda, per arrivare al 2050 alla carbon neutrality. La partnership commerciale con Rai, il cui valore economico non è stato reso noto, comprende anche il calcolo dell’impatto in termini di CO2 del festival stesso.
Perché i gruppi ambientalisti contestano Plenitude
Per esprimere la loro ferma opposizione alla partnership, gli attivisti dell’organizzazione ambientalistaGreenpeace sono riusciti a scavalcare le transenne e fare una rapida incursione sul green carpet.
“Eni potrà anche continuare a finanziare eventi culturali, ma ciò non cambierà il fatto che l’unica cultura che promuove è quella dei combustibili fossili, dell’estrattivismo e dell’ingiustizia”, tuonano i Fridays for future invitando i loro follower a manifestare la loro contrarietà sui social media con l’hashtag #Sanreni. Un hashtag che è stato ripreso anche da Legambiente, con un post in cui sostiene che “la svolta sarebbe puntare su attività realmente sostenibili”.
Gli attivisti contestano il fatto che, stando ai dati del 2017, Eni figuri ancora fra le trenta aziende globali responsabili del maggiore quantitativo di gas serra emessi in atmosfera. La decarbonizzazione che è stata promessa – sostiene Greenpeace – ha ritmi troppo lenti perché il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) ha esortato la comunità internazionale a fare tutto il possibile per arginare i cambiamenti climatici entro il 2030, non oltre. Il piano strategico 2021-2024 prevede inoltre di destinare ai combustibili fossili il 65 per cento degli investimenti in capitale fisso e di continuare a produrli fino al 2050. Anzi, fino al 2025 la produzione aumenterà.
Di per sé non c’è nulla di male nel comunicare i risultati raggiunti in campo ambientale, utilizzandoli anche come leva di marketing: in tal caso si parla di green claim. Gli ambientalisti tuttavia bollano quella di Plenitude come un’operazione di greenwashing, cioè – per riprendere la definizione che ne dà il vocabolario Treccani – come una “strategia di comunicazione e marketing” che “presenta come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”. O meglio, per quanto riguarda questo caso specifico, di dare per archiviati alcuni obiettivi che al momento sono ancora sulla carta.
Si narra che il primo a coniare questo termine sia stato l’ambientalista staunitense Jay Westerveld. Era il 1986 e all’epoca si riferiva alle catene alberghiere che invitavano i clienti a riutilizzare gli asciugamani per evitare l’impatto ambientale dei lavaggi troppo frequenti, quando in realtà erano spinte dalla pura volontà di risparmiare.
Cosa dice la legge sul greenwashing
Pochi all’epoca immaginavano che a 36 anni di distanza ci sarebbero state linee guida e sentenze sul greenwashing. In termini normativi, ladirettiva europea 29/2005sulle pratiche commerciali sleali non affronta direttamente il tema, ma alcune interpretazioni successive sottolineano quanto la comunicazione debba essere chiara, accurata e non ambigua. Allo stesso modo, il codice del consumo italiano (decreto legislativo 206/2005), poi ampliato dai decreti legislativi 145 e 146 del 2007, “promuove l’adeguata informazione, la corretta pubblicità e la trasparenza ed equità dei rapporti contrattuali”.
Trasparenza e correttezza che sono indispensabili anche quando si parla delle performance ambientali di aziende, prodotti e servizi, divenute un criterio di acquisto per una platea sempre più ampia di consumatori. Per trovare una norma specifica (seppure non vincolante) bisogna leggere il Codice di autodisciplina pubblicitaria. Per la precisione, l’articolo 12 mette bene in chiaro che la comunicazione commerciale, nel vantare o evocare benefici ambientali, deve “basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili”. E non deve essere ambigua: il consumatore deve essere messo nelle condizioni di capire se il claim ambientale si riferisce all’azienda nel suo insieme, a un prodotto o a una sua parte.
Dopo le prime sentenze da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (ammonta a 5 milioni di euro la multa comminata alla stessa Eni nel 2020), nel 2022 è entrato in gioco per la prima volta anche un tribunale ordinario. Per la precisione quello di Gorizia che ha ordinato alla friulana Miko di ritirare una pubblicità. Tra ordinanze, titoli di giornale e post sui social media, il greenwashing si è fatto spazio nell’opinione pubblica fino a diventare una priorità. E la sua comparsa sul palcoscenico mainstream per definizione, quello di Sanremo, ne è l’ennesima prova.
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