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Greenwashing, come riconoscere se un prodotto è veramente sostenibile
Nella corsa verso la sostenibilità, alcune aziende inciampano in dichiarazioni poco trasparenti per convincere i consumatori. Per riconoscere il greenwashing servono domande precise e certificazioni ambientali.
Lavarsi nel verde l’anima nera di fossile. Nella volontà di colpire al cuore chi è particolarmente attento al rispetto dell’ambiente, un’azienda può inciampare in pratiche sleali e mostrare virtù ecologiche che in realtà non possiede. In una parola: greenwashing.
Strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo
Origini ed evoluzioni
Nonostante compia 36 anni – era il 1986 quando l’ambientalista americano Jay Westerveld lo usò riferendosi a strutture ricettive più attente ai propri introiti che all’ambiente – il fenomeno del greenwashing sta oggi vivendo un’impennata. Non è un caso che sia speculare all’accresciuta sensibilità dei consumatori, alla luce anche del green carpet calcato dall’Unione europea per favorire una crescita supportata da finanziamenti sostenibili.
Nel 2021 la Commissione europea, sotto il coordinamento del’Ipcen-Consumer protection and Enforcement Network, la rete internazionale per la tutela dei consumatori, insieme alle autorità nazionali di tutela dei consumatori, ha condotto uno studio approfondito sulla pratica. Dal campione è emerso che il 42 per cento dei siti di vendita online riportava informazioni ambientali ingannevoli e che nel 37 per cento dei casi l’affermazione data al consumatore era vaga e generica, in un altro 59 per cento non c’erano prove a sostegno.
Se un prodotto – o servizio – è definito dall’azienda che lo produce “green” o “naturale” non significa lo sia davvero. Questi termini, che potremmo definire “tormentoni” per la frequenza con cui compaiono nelle conversazioni quotidiane, possono ingenerare confusione. Basta fare un esempio: sulla scia della “onda verde” che ha interessato il mercato del consumo negli ultimi anni, sono proliferati imballaggi dominati dal colore verde. La tonalità abete era praticamente ovunque: dai packaging dei prodotti per la cura del corpo alle confezioni degli alimenti più comuni, dagli shampoo ai biscotti da latte. Ma basta l’estetica per garantire il rispetto dei criteri di sostenibilità?
Dall’Ue all’Italia: la normativa
L’agenzia governativa statunitense Federal Trade Commission (Ftc) è stata un’antesignana nello stilare, nei primi 2000, le linee guida per l’utilizzo di “environmental marketing claims”, regole che obbligano le aziende sin nelle scelte di linguaggio. Nel 2005 la direttiva europea 29, interpretazioni successive incluse, dà il via alla normazione sulle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori. Sedici anni dopo arriva la proposta legislativa Green consumption pledge per rafforzare il ruolo dei consumatori nella transizione verde e la veridicità delle affermazioni ecologiche.
In Italia, sempre nel 2005, il decreto legislativo 206, e successivi ampliamenti, evidenzia la necessità di una comunicazione adeguata, corretta, trasparente. Nel Paese a vegliare è l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha l’onere di decidere se una pubblicità è onesta e ha inserito il greenwashing nella lista delle pubblicità ingannevoli. A fianco a lei l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, associazione volontaria che dagli anni ’60 riunisce gli operatori del settore per vigilare sulla comunicazione commerciale onesta. Nel 2014 ha promosso uno strumento determinante nel contrasto alla pratica del greenwashing introducendo nella 58esima edizione del proprio Codice di autodisciplina l’articolo 12 con cui stabilisce che la “comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”.
Nel 2015 un ulteriore passaggio normativo: la legge 221 sulla Green economy “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, il cosiddetto Collegato ambientale. Ancora più recente la sentenza nel 2021 del tribunale di Gorizia, primo ordinario in Italia, che ha stabilito di sospendere la diffusione della pubblicità di una microfibra definita dal produttore “ecologica” e “amica dell’ambiente”.
Più domande per riconoscere il greenwashing
Chi imbocca la strada dello sviluppo sostenibile lo fa in tanti modi. In una filiera produttiva c’è chi adopera tecnologie energeticamente e “idricamente” efficienti, chi usa carburanti meno impattanti per alimentare i mezzi della logistica, chi sceglie un imballaggio realizzato con materiali riciclati e, a loro volta, riciclabili.
Se un’azienda si definisce sostenibile è importante capire se lo è veramente. Non basta leggere l’elenco degli ingredienti, occorre anche chiedersi “perché green?”, “è green il prodotto o l’azienda?”, “green indica un solo materiale, una sola fase o tutto il processo produttivo?” e, ancora, “quali sono i numeri, i risultati certificati da enti terzi e imparziali che lo dimostrano?”.
Quando tra le informazioni diffuse da un’azienda non si trovano le risposte, quando l’interlocutore, di rimando, non capisce quali siano gli specifici benefici ambientali, allora si ha davanti un chiaro esempio di greenwashing. Secondo il World economic forum, il 66 per cento dei consumatori preferisce prodotti ottenuti portando attenzione all’impatto ambientale, percentuale che sale al 75 per cento tra i millenials, ed è disposto a pagarlo di più. La disponibilità e la verifica dei dati è ormai a portata di clic e c’è la (giusta) pretesa che le performance ambientali dichiarate siano rispettate.
Con le certificazioni non si sbaglia
Il confine è labile, non sempre si riescono a riconoscere le pratiche sleali. Ci sono casi in cui si omettono informazioni, incoronandosi green senza fornire dati puntuali. Si scelgono con leggerezza campagne comunicative energivore e si proclamano azioni di rimboschimento senza però preoccuparsi, a monte, di calcolare e ridurre il proprio impatto (le emissioni vanno tagliate alle radici o, almeno, bisogna provarci).
A smascherare le “bugie ambientali” sono anche le certificazioni a tema, di processo e di prodotto, rilasciate da enti terzi e imparziali e ottenute rispettando rigidi criteri di sostenibilità:
- Uni En Iso 14024: con questa etichetta ambientale di tipo I, rilasciata da un ente terzo e indipendente, si marchiano solo prodotti che garantiscono un ridotto impatto ambientale;
- Uni En Iso 14021: è un’auto dichiarazione data dai produttori a fronte dell’uso di metodologie verificate e provate per ottenere risultati attendibili. Fa parte delle etichette ambientali di tipo II e riguarda le caratteristiche ecologiche del prodotto;
- Uni En Iso 14025: si tratta di un’etichetta ambientale di tipo III, soggetta a verifica di un organismo accreditato e indipendente, che offre indicazioni sull’impatto ambientale dell’intero ciclo di vita di prodotti e servizi;
- certificazioni volontarie Emas (Eco-Management and Audit Scheme) e Iso 14001 consentono alle aziende di attestare la validità del proprio sistema di gestione ambientale (Sga), utile a rispettare le normative vigenti in materia;
- marchio europeo Ecolabel dal 1992 promuove l’economia circolare attraverso elevati standard ambientali applicati all’intero ciclo di vita, dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento.
Utili bussole per chi, con oculatezza, vuole fare acquisti più sostenibili da imprese davvero “green”.
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